“Billy Summers” di Stephen King
Come spesso accade con i suoi romanzi, King mi ha lasciato un senso di vuoto. Un’assenza “positiva”, la malinconica sensazione di aver amato Billy, Alice e perfino Bucky, di aver stretto un patto di amicizia con loro e purtroppo, come sempre capita alla fine delle storie, ho vissuto la lacerazione del saluto. Ognuno per la sua strada.
Se dovessi dire di cosa parla “Billy Summers” direi che parla di redenzione. La redenzione che arriva, paradossalmente, attraverso la vendetta. Ma questo libro è anche un mucchio di altre cose. È una storia d’amore che non nasce, pur esistendo; è una storia di amicizia, di tante amicizie insieme; è una storia di paternità, pur non essendoci un padre e una figlia, è una storia di guerra, quanto mai attuale in questo periodo. Questo libro è un percorso, la fuga da qualcosa, che diventa viaggio, verso qualcos’altro.
Billy è un sicario, un cecchino con una morale. Accetta solo incarichi che prevedano l’eliminazione di persone “cattive”. Ma Billy, durante la sua avventura, diventa anche uno scrittore, impara a conoscere il potere terapeutico di mettere nero su bianco i pensieri, diventa il demiurgo di se stesso e noi non leggiamo un libro, ne leggiamo contemporaneamente due.
Questo non è un horror, eppure il re riesce a fare un chiaro richiamo a un suo famosissimo horror degli anni ’70, in quel modo così speciale che ci piace tanto quando troviamo un collegamento con le sue opere precedenti.
Sono anni ormai che King non sforna un capolavoro all’altezza di “It” o de “L’ombra dello scorpione”, del resto lui scrive da 50 anni e ha partorito un’infinità di romanzi, non possiamo pretendere sempre quel tipo di emozione e ci sta che cambi registro. Ma questo è comunque un bel libro, un gran bel libro, da leggere tutto d’un fiato o da assaporare poco per volta a seconda dei gusti.