Un libro metropolitano, “zerocalcariano”, generazionale, sporco il giusto.
Dicono che le presentazioni dei libri servano a poco, ma io non ci credo. Ho acquistato questo libro al termine di una bellissima presentazione e ho subito capito che Catia aveva qualcosa da dire.
La storia è ambientata nel quartiere romano di Rebibbia e segue le giornate di un gruppo di ragazzi alle prese con i soliti problemi: l’università, l’invisibilità, il bullismo, i desideri mai realizzati, l’amicizia, i sensi di colpa e anche la morte. Sì, la morte perché il simbolo di questo libro, attorno a cui ruotano le vicende di Malick, Martina, Mattia e Zaril, è una sedia. Su quella sedia posizionata sul marciapiede, che nessuno osa spostare, neppure di notte, siede Carola, tutto il giorno. Carola siede e aspetta. Cerca giustizia per suo figlio morto durante un pestaggio. Nessuno ha visto, nessuno ha sentito. Possibile? E così lei aspetta, perché non può fare altro ormai. Come chi, sul ciglio di un fiume attende il cadavere del nemico, così lei attende che si palesi l’assassino di suo figlio. A far da contraltare alla sua immobilità e al suo silenzio sta un quartiere che si muove e che vive, tra fabbriche occupate da sgomberare e una gang di teppistelli con una bomba a miccia tatuata sul collo che semina il terrore tra le strade.
All’inizio del libro Malick e Martina non si conoscono, ma si riconoscono tra i volti sempre uguali della gente che prende la metro e scende a Rebibbia. Una fortuita causalità li farà incontrare, in un locale di San Lorenzo e da lì, due anime così diverse, inizieranno un percorso insieme, un cammino che li porterà a svelarsi e confessarsi nelle Aule B delle scuole vecchie di Rebibbia, segreto rifugio notturno e consolazione delle pene giornaliere di questo gruppetto di improbabili amici accompagnati da una scimmietta.
Ma la gang della bomba irromperà nelle loro vite con forza bruta e segnerà per sempre le loro esistenze.
Il talento di Catia è chiaro e cristallino e l’abilità con cui riesce a descrivere una generazione che non è la sua, incredibile. Empatizziamo con i ragazzi, con il loro modo di esprimersi e facciamo il tifo affinché riescano a emergere, a sgusciare fuori dal bozzolo vischioso che li ingloba in un mal di vivere inquieto, che ci perseguita e ci accompagna nelle notti buie di un quartiere che ha tante vicende da raccontare.
Gli ultimi capitoli sono da leggere tutti d’un fiato, sono una corsa lungo le periferie di Roma, perché questo è “Quando tutto brucia” un percorso su una strada. Catia ci racconta del cemento che fagocita i nostri figli all’imbrunire e ce li restituisce (se siamo fortunati) a notte inoltrata, quando la chiave che gira nella toppa della serratura acquieta il nostro cuore e ci concede quelle poche ore di sonno che rimangono prima dell’alba.
Amerete Malick e i suoi amici e alla fine del libro guarderete i vostri figli, sperando che la loro individualità sopravviva alla massa del quartiere, al gruppo che deresponsabilizza e li fa muovere come “granelli di sabbia al vento”, atomi impazziti di un corpo che non segue più una logica. Li guarderete e quando usciranno di casa la sera, per vivere le loro esperienze, gli direte, per quel che vale, la classica frase che abbraccia un’infinita serie di possibilità: “mi raccomando, stasera non fare cazzate!”