Capitolo 1 – L’aereo
L’aereo toccò il suolo spagnolo quattro minuti dopo la mezzanotte. Non fu il ruvido urto delle ruote sulla pista a svegliarla, ma le grida di sua figlia che sembravano giungere da una distanza siderale. Spalancò gli occhi e gridò: «Holly dove sei?»
«Sono qui mammina accanto a te.»
Si era trattato solo di un brutto sogno.
Nell’incubo si svegliava in pieno volo trovandosi solitaria passeggera di un viaggio verso l’ignoto. A bordo erano tutti spariti, tutti tranne quei pochi che, come lei, erano riusciti a prender sonno, nonostante la turbolenza. I finestrini scuri dell’aereo rimandavano alla vista un inquietante nulla. Non era la buia notte quella che le sue pupille vedevano, era qualcos’altro, era la notte mangiata da strani esseri famelici. Era come guardare una carta da parati strappata. Ecco, sì, quella era la definizione giusta. La notte era “strappata”, divorata in alcuni punti. E Holly… Holly era nella cabina di pilotaggio e gridava.
«Tesoro tutto bene?»
La voce del marito la riportò alla realtà, facendole dimenticare l’opprimente senso di alienazione che il sogno le aveva lasciato.
«Sì, certo caro, tutto a posto, ho avuto solo un incubo. Pensi tu ai bagagli a mano? Io mi occupo dei ragazzi.»
Fu così che la famiglia Summers (Johnny, Carrietta Williams detta Carrie e i gemellini di sei anni Jake e Holly), sbarcarono all’aeroporto di Siviglia in un’afosa e umida notte di luglio.
L’aereo aveva avuto un forte ritardo e Johnny stava sbraitando per il rischio di non riuscire a ritirare l’auto prenotata.
«A quest’ora saranno chiusi! Ci toccherà cercare un albergo dove dormire per questa notte.»
Forse, se le cose fossero andate così, avremmo raccontato un’altra storia, ma le cose, si sa, non vanno mai come dovrebbero.
Mentre Holly guardava ipnotizzata il nastro trasportatore della consegna bagagli, che nella sua fervida mente somigliava alla lunga lingua scura di un gigante che divorava caramelle, e Johnny e Carrie cercavano i loro trolley, Jake si allontanò, attratto dall’insegna “Rent a car” che per un ignoto motivo si era messa a lampeggiare, catturando i suoi occhi.
«Ecco le valigie, dai Holly non ti addormentare che ora andiamo. Dove sta tuo fratello?»
«È andato per di là.»
«Là dove, scusa?», una nota di allarme nella voce di Carrie.
«Là» e indicò verso la freccia delle auto a nolo.
Johnny scattò rapido alla ricerca di Jake, trovandolo quasi subito, per fortuna, di fronte a un’insegna fiocamente illuminata che si trovava tra i due uffici (chiusi) della Hertz e della Avis.
«Jake te l’ho detto mille volte, non devi allontanarti senza avvisarci.»
«Avevamo bisogno di una macchina, l’ho trovata», rispose il piccolo con quella sua capacità di far sembrare semplici e naturali tutte le cose del mondo.
L’insegna riportava la scritta “Needful cars”.
Che nome insolito per un negozio di autonoleggio pensò Johnny, entrando in quello che in realtà sembrava essere più un ricettacolo di roba usata che un ufficio. Una campanella suonò al suo ingresso, aumentando la situazione di disagio che crebbe al limite dell’insostenibile quando, pur non vedendo nessuno, cominciò a sentirsi spiato.
Quando arrivarono Carrie e Holly si materializzò alle loro spalle la voce melliflua di un uomo senza età che disse: «Benvenuti. Leland Flagg, al vostro servizio.»
Capitolo 2 – La macchina
Sobbalzarono all’unisono. Non l’avevano sentito arrivare. Flagg tese loro una mano asciutta e priva di linee. Carrie si rifiutò di stringerla, fingendosi intenta a fare altro. Johnny allungò la sua e subito una fitta dolorosa gli attraversò la testa, come non succedeva da anni.
Da piccolo aveva avuto un incidente sullo skate che lo aveva lasciato privo di sensi per alcuni minuti. Al risveglio si era ritrovato con un bernoccolo e una forte emicrania. Quel mal di testa non l’aveva abbandonato per tutta l’adolescenza, svanendo solo intorno ai vent’anni. Ed era stato il suo tormento e il suo segreto perché quell’emicrania era il sintomo di un potere, una sacca energetica che era rimasta latente in un angolo della sua testa, in una zona buia, per poi essere liberata a seguito di quella caduta. E il suo potere era quello di “vedere le cose”, vederle prima degli altri. Bastava un tocco per avere una visione.
Sua mamma non aveva mai voluto parlare di quel “dono”, suo papà era morto tragicamente quando lui aveva due anni, colpito dal proiettile di un pazzo che aveva perso la testa perché stavano costruendo un’autostrada praticamente dentro casa sua, i suoi amici lo ritenevano un po’ “strambo” quando ne parlava e quindi non aveva mai avuto persone con cui confidarsi. Nessuno ne aveva più accennato e a furia di non parlarne, tutti si erano dimenticati che il piccolo Johnny era stato “toccato” da qualcosa, e lui stesso si era convinto che fosse tutta un’illusione e pian piano il suo potere, ignorato, tornò latente, accucciandosi in quell’angolo della mente da dove era sbucato fuori. Ecco, ora quella stretta di mano lo aveva riattivato, alla stessa stregua di quell’incidente con lo skate. No, non aveva avuto visioni, ma l’emicrania era tornata forte e potente in lui come se quell’uomo, quel Leland Flagg, sapesse, o meglio avesse un potere analogo al suo o forse ancora più forte.
«…a qualcuna in particolare?»
«Come dice? Mi scusi ero sovrappensiero.»
«Dicevo, è interessato a qualche macchina in particolare? Purtroppo non me ne sono rimaste molte, sa com’è, siamo gli unici a restare aperti la notte e quindi gli affari migliori li facciamo tardi, quando abbiamo l’esclusiva.»
Sorrise e c’era qualcosa in quel sorriso di perfido, qualcosa che sapeva di marcio e di denti storti. Carrie lo notò subito, ma Johnny continuava a pensare ad altro, al suo mal di testa e aveva fretta di uscire da lì e di arrivare alla casa che avevano prenotato per le vacanze, quindi senza pensarci troppo disse: «Avevo pensato a un SUV, ma ci accontentiamo di quello che ha, del resto credo di non avere scelta.»
«Amore forse non è il caso…»
«Tesoro tranquilla, è tutto O.K. lascia fare a me e tra un’ora saremo a dormire a casetta.»
«Ho otto Buick, una più affidabile dell’altra.»
«Non mi aspettavo delle Buick qui in Spagna.»
«Guardi, i suoi figli hanno già scelto, si sono fermati davanti a quella rossa, Cristina.»
«Cristina? Le sue macchine hanno dei nomi di persona?»
«Mi piace dare un nome a ogni cosa. Questa è in onore dell’Infanta Cristina, la secondogenita del re. Mi creda, è un’ottima macchina e vedrà, più consuma, meno consuma, sono auto che a ogni chilometro percorso ringiovaniscono.
«Facciamo così, visto che vedo la sua signora scettica. Mi firma un contratto di noleggio per un solo giorno. Domani è libero di restituirmela e andare a servirsi dalla concorrenza. In caso contrario, se volesse prolungare la durata del noleggio, non dovrà far altro che rispondere alla mail che le arriverà con il contratto allegato e chiedere l’estensione fino alla data che riterrà più utile per lei.»
Tutti i Summers erano molto stanchi quindi decisero di non indugiare oltre e, stipulato il contratto, salirono sulla Buick.
«Mi sarei aspettato di vederlo svanire in una nuvoletta di fumo con il suo contratto in mano, per quanto era strano quel tipo. Sicuro che non gli hai venduto l’anima firmando quel foglio? Lo hai letto bene?»
«Mi piace il tuo macabro sarcasmo Carrie.»
«Lo so, piace anche a me. Dio sono così stanca, riposo un attimo gli occhi tanto il navigatore è impostato e te la dovresti cavare, va bene?»
«Tranquilla, ti sveglio quando arriviamo e voi ragazzi tutto bene?»
Ma Jake e Holly già sonnecchiavano appoggiati l’uno all’altra, con le cinture allacciate.
«Va bene, allora siamo tutti d’accordo, si parte.»

Capitolo 3 – La strada
La strada scorreva silenziosa. Su ogni ponte compariva la scritta “custodia compartida”. Aveva letto che era il riferimento a una battaglia legale che i papà separati stavano facendo per avere l’affidamento congiunto dei figli.
Johnny, scrittore con il blocco, acclamato autore di “Diavoli vuoti”, in vacanza proprio per “sbloccarsi”, si godeva la guida veloce, morbida e confortevole di Cristina. Aveva la sensazione che se si fosse addormentato li avrebbe portati lei a destinazione.
Lungo il percorso c’erano parecchi autovelox e Johnny doveva ogni volta rallentare perché Cristina la strada se la mangiava e a ogni chilometro aumentava, da sola, un po’ di più l’andatura.
Prima il mal di testa e ora quella macchina, c’era qualcosa di sinistramente meraviglioso, si sentiva parte di un tutto, di un nuovo progetto, stava per accadere qualcosa, lo sentiva. E forse sarebbe tornata anche l’ispirazione, quella che aveva perso qualche mese fa, quando un mitomane, presentatosi alla porta di casa, lo aveva minacciato a morte, sostenendo che il suo bestseller “Finestra segreta” era in realtà stato scritto da lui anni prima con il titolo “Giardino segreto”. La cosa lo aveva destabilizzato e aveva cominciato a dormire male. Si svegliava nel pieno della notte e non riusciva più a riaddormentarsi. E la cosa terribile era che ogni notte era più lunga della precedente perché lui tendeva a destarsi sempre prima. Alle 5:00, poi alle 4:45; era arrivato fino alle 3:00 e decisamente non poteva continuare così. Anche per questo aveva deciso di cambiare continente. Nuovo fuso, nuove abitudini; stava scappando dai suoi incubi.
Un altro autovelox. Non voleva recapitare multe al signor Flagg, ma aveva la sensazione che Cristina fosse invisibile ai radar e in preda a un’eccitazione folle questa volta non rallentò, ma spinse ancora di più sul pedale. Carrie si agitò sul sedile di fianco. Il suo lamento lo ridestò e tra sé e sé pensò: mio Dio cosa mi prende? Meglio rallentare.
Carrie aveva un tragico destino in comune con lui. Aveva perso la madre, da piccola, investita da una Mercedes mentre faceva la fila insieme a un mucchio di altri disperati disoccupati come lei, di fronte all’ufficio di collocamento. Così lui era cresciuto con la madre e lei con il padre, si erano conosciuti al college e ora che avevano costruito la loro famiglia erano così contenti che Jake e Holly avessero entrambi i genitori.
Guardò Carrie, sembrava muoversi nel sonno. Sua moglie stava sognando. Sognava di essere piccola e di guidare un triciclo lungo un corridoio pieno di angoli. La marca del triciclo era Tony qualcosa. Le ruote facevano un suono ovattato sulla moquette di quello che poteva essere, ma non ne era sicura, un albergo. Stava cercando la stanza numero 1408, la “stanza rossa”.
A ogni svolta aveva paura di incontrare un clown. I pagliacci le facevano paura, da quel giorno in cui, al circo, un tizio buffo con il cerone bianco e i capelli arancioni, le aveva spruzzato dell’acqua da un fiore finto. Non voleva più averci niente a che fare.
Ma non incontrò pagliacci, finì invece si fermò all’ingresso di un grosso salone. Doveva aver letto male la destinazione finale del suo percorso sulla mappa dell’hotel perché la targhetta dorata sul muro non riportava la scritta “red room” bensì quella ben più incomprensibile di “redrum”.
Nel salone eleganti persone danzavano al ritmo di un valzer. Era un ballo in maschera. Portavano tutti il volto di un animale; un coniglio, un maiale, un…
«Un Fennec! Guarda!» gridò Johnny svegliandola di soprassalto.»
«Cos’è un Fennec?» rispose assonnata.
«È una volpe del deserto, per poco non la investivo.»
«Johnny attento!» Due grossi cani sbucarono all’improvviso evidentemente a caccia del Fennec e fecero sbandare la Buick che puntò dritta verso il precipizio.
«Frena Johnny, frena!»
«Ci sto provando, ma non risponde ai comandi!»
I bimbi sul sedile di dietro si svegliarono urlando e la Buick si fermò un centimetro prima del baratro. Il motore si spense. In lontananza un pastore stava richiamando i suoi due cani impazziti: «Kojak, Cujo, tornate qui!»
«Non mi piace questa macchina, Johnny, non mi piace per niente. Dove siamo?»
«Siamo quasi arrivati. Avevo imboccato da poco la stradina sterrata per la collina quando è sbucata quella volpe. Mancheranno dieci minuti stai tranquilla, ora ripartiamo.»
«Stai attento alla strada, è strettissima, se viene giù qualcuno come facciamo? Non c’è spazio per fare manovra.»
«Se incrociamo qualcuno ci porremo il problema, ora andiamo. Tutto bene lì dietro?»
«Si tutto bene papà. Io il Fennec non sono riuscita a vederlo? Credi ce ne saranno altri?»
«Chi lo sa? Tieni gli occhi ben aperti, magari sarai fortunata.»
La Buick ripartì senza problemi e i Summers si inerpicarono per una ripida e buia stradina.
«Come la riconosciamo la casa? Abbiamo appena perso il segnale del GPS.»
«Mi ha detto l’affittuario che venti metri prima, sulla sinistra c’è un muro con una grossa scritta azzurra.»
Non si può sbagliare Mr. Summers, la scritta è inconfondibile per quanto incomprensibile. C’è scritto purpurfargade ansiktet.
«Eccola lì, è quella! Pur pur ansi eccetera. Siamo arrivati papà», disse Jake.
E infatti, alla curva successiva, c’era il cancello della loro dimora.
Johnny aprì la portiera e scese.
«Dove vai, scusa?»
«A prendere le chiavi. Secondo te come facciamo a entrare? Mi ha detto il proprietario che le ha lasciate dentro la cassetta aperta della posta.»
Mentre Johnny, rovistando tra cartacce di vario genere trovò le chiavi, la Buick iniziò impercettibilmente a scivolare all’indietro.
«Mamma mi sbaglio o ci stiamo muovendo?» disse Holly.
«Mio Dio Johnny, la macchina si muove, corri.»
«Tira il freno a mano presto!»
Ma Carrie era paralizzata, non riusciva a muovere un dito. I finestrini si erano alzati, l’aria condizionata era partita al massimo della potenza e l’autoradio si era accesa da sola.
«Tira il freno» ripeté Johnny con tutta l’aria che aveva in corpo, consapevole che era troppo lontano per intervenire e che la macchina era ormai sul bordo del dirupo.
Fu Jake a salvarli. Azionò il freno a mano, ma lo fece con la mente, nessuno lo vide, neppure Holly, ma lo fece con la mente, non con le mani e così, a sei anni e mezzo, in Spagna, Jake scoprì di avere un potere.
Cap. 4 – La casa
«Ma è bellissima! Grazie papà. E che piscina favolosa! Possiamo farci il bagno?» disse Holly.
«Domani mattina ragazzi, ora tutti a nanna che è tardi.»
«Wow! A questo giro non hai badato a spese signor Summers, è veramente splendida.»
Johnny sorrise soddisfatto all’affermazione della moglie. Il tondo dorato della luna piena si specchiava nell’acqua azzurrognola della piscina che dominava la vallata regalando una vista a centottanta gradi sui paesini sottostanti. Le luci ancora accese delle case donavano all’insieme un che d’idilliaco, qualcosa di molto vicino allo schizzo di un pittore.
«Però tu domani riporti quella Buick al signor Flagg.»
«Ma, Carrie.»
«Niente ma e niente se. Quella macchina ci ha quasi uccisi per ben due volte in pochi minuti. Restituiscila e affittane un’altra.»
«Ai tuoi ordini regina. Vieni, entriamo a dare un’occhiata.»
Un bianco colonnato li introdusse in un raffinato ambiente stile Liberty. Al piano di sotto c’erano un ampio salone con biliardo, due bagni, due camere da letto e una cucina accessoriata. Sul frigorifero alcune lettere a calamita riportavano la scritta “hello”; sul tavolo giaceva una calda crostata di benvenuto che però nessuno di loro assaggiò.
Al piano di sopra, cui si accedeva tramite una scala a chiocciola, una stanza matrimoniale con bagno e uno studiolo, perfetto per ritrovare la vena letteraria perduta.
La parete più ampia del salone era decorata con due dipinti che rappresentavano l’uno un’immensa torre nera circondata da uno sterminato prato colmo di rose, l’altro un campo di grano su cui torreggiava un occhio liquido e rosso che si affacciava dal cielo come l’iride del dio di un altro mondo e colorava di cremisi le spighe dorate. Per uno strano effetto ottico sembrava che le spighe sanguinassero. Le firme in basso a destra riportavano i nomi degli autori delle due opere. Il primo era di un tale R. Deschain, il secondo di un certo A. Linoge.
Nella prima rappresentazione, impercettibile allo sguardo, una piccola macchiolina sopra la collina di sinistra raffigurava un essere umano.
Era molto tardi e per quanto entusiasti del posto i bambini crollarono nei loro letti.
«C’è spazio per un po’ di coccole selvagge signora Carrietta?» disse Johnny ammiccando.
«A cosa sta pensando esattamente signor Summers?»
«Pensavo di legarle le braccia alla testata del letto. Sono sprovvisto di manette, ma penso che questi due tovaglioli possano andar bene.»
«Lei vuole possedermi contro la mia volontà» rispose eccitata Carrie lasciandosi cadere sul letto, le mutandine già abbassate alle caviglie, ma il sesso rasato ancora nascosto alla vista dalla gonna.
Johnny legò i polsi al letto, in modo tale che la moglie non avesse possibilità di rigirarsi e cominciò a leccarle le caviglie, poi i polpacci, risalendo piano piano sino alla vulva. Proprio mentre stava per affondare la sua lingua dentro la fessura umida, nella stanza dei ragazzi una piccola scimmia di peluche con due piatti legati alle mani si accese e produsse un suono acuto. Pochi istanti dopo Johnny sentì un tonfo, come quello di un corpo finito nell’acqua della piscina.
Subito pensò ai ragazzi e corse di sotto per vedere se uno di loro o entrambi fossero caduti nella vasca, allarmato dal fatto che lui ne ignorava la profondità.
«Johnny aspetta, non lasciarmi legata, dove vai?», ma lui era già al piano di sotto.
L’acqua della piscina era diventata rossa e qualcosa vi galleggiava sul fondo, ma non si vedeva bene visto che era diventato tutto torbido e limaccioso. Dietro i cespugli si muoveva una figura enorme, ferina, intenta a divorare qualcosa. Si avvicinò e quel che vide gli gelò il sangue nelle vene. Un essere antropomorfo, ricoperto interamente di peli, stava azzannando una pecora o quel che ne restava.
Alla vista di Johnny l’uomo lupo (questa la miglior definizione che ne si potesse dare) sollevò il muso dal manto lanuginoso dell’ovino e ululò alla luna. Aveva un occhio solo, al posto dell’altro un’orrenda cicatrice testimoniava di uno scontro con qualcuno che si era difeso bene con un’arma appuntita (no, non era un’arma, era un fuoco d’artificio e il pensiero assurdo gli nacque così, improvviso, ingiustificato, senza senso).
Poi balzò via sparendo dietro il fogliame e trascinando con sé i resti della pecora. Fu proprio allora che la scimmia suonò ancora e che Carrie gridò.
Mio Dio l’ho lasciata legata al letto pensò, rabbrividendo all’idea che potesse esserci un secondo lupo mannaro dentro casa. Quando irruppe in camera da letto la trovò con i cocci di un bicchiere tra le dita. Evidentemente aveva cercato di liberarsi dai legacci frantumando l’unica cosa che era riuscita a prendere da quella posizione.
«Carrie stai bene?»
«C’era un cane qui.»
«Cosa? Cosa stai dicendo?»
«Sto dicendo che c’era un cane che mi ringhiava contro fino a pochi secondi fa qui e ti dirò di più, era uno di quei due che ci hanno attraversato la strada facendoci sbandare.»
«Carrie non ci sono cani qui, me ne sarei accorto» le disse cercando di essere razionale, senza rendersi conto che tutta la razionalità che possedeva era andata a farsi benedire alla vista dell’uomo lupo.
«Johnny Summers c’era un cane, l’ho visto bene, era un enorme San Bernardo e ora lasciami andare a controllare i ragazzi.»
Ma la camera dei ragazzi era vuota, erano entrambi in contemplazione della piscina, sul cui fondo era depositata la testa di una pecora. Holly aveva in mano la scimmietta con i piatti.
«Ragazzi state bene? Tranquilli non è successo niente, solo un lupo che ha pensato bene di mangiarsi la sua preda nel nostro giardino. Domani mattina chiamiamo qualcuno a pulire la piscina. Ora rientrate dentro che comincia a fare fresco.»
Rimase per alcuni minuti in contemplazione della paccottiglia che giaceva sul fondo vasca, poi sentì freddo ed ebbe uno dei suoi “attacchi”, percepì qualcosa, una voce che gli parlava direttamente da dentro la testa.
«C’è un altro mondo oltre a questo Johnny, vieni, ti stiamo aspettando.»
Era una lingua sconosciuta, ma lui riusciva inspiegabilmente a comprenderla.
Intanto Carrie, ignara delle allucinazioni del marito, cercava di minimizzare gli eventi tranquillizzando i figli.
«Venite ragazzi, per oggi abbiamo avuto la nostra dose di emozioni, torniamo a dormire.»
Johnny li vide rientrare dentro casa, circondati da filamenti luminosi. Una sorta di “aura” avvolgeva i loro corpi, più chiara quella dei bambini, più scura quella di Carrie. Anche la casa era avvolta da un’aura. Un vermiglio cangiante che virava a volte all’arancione a volte al violetto. Poi, così come erano arrivate, le allucinazioni sparirono.
Più attratto che spaventato da quanto aveva visto, Johnny si fermò in cucina con l’intenzione di scolarsi una “Cerveza”, ma il suo occhio cadde sulle calamite appiccicate sul frigo. Si erano spostate a comporre una nuova parola: “cake”. Interdetto, si voltò verso la crostata che
(purpurfargade)
emanava un profumo delizioso e al tatto era ancora inspiegabilmente calda.
“L’assaggi signor Johnny”, recitava il biglietto lasciato dal signor Cantori, il padrone di casa. “L’ha fatta mia moglie Lisey, vedrà, la farà “flippare”. Senza soffermarsi sul misterioso significato della parola “flippare” ne gustò una buona metà. Era talmente speciale che non riusciva a smettere di mangiarla. Dentro doveva esserci marmellata di visciole, scura, calda, inebriante.
Salì le scale per la camera da letto che ancora si stava leccando le dita.
Carrie dormiva. Evidentemente tutta l’eccitazione per il gioco erotico era svanita e ora desiderava solo riposare e dimenticare i brutti eventi che erano capitati loro sin dal primo momento in cui avevano messo piede sul suolo spagnolo.
Johnny si lavò i denti mal volentieri (voleva conservare quel delizioso sapore di visciole ancora per un po’) e mentre sciacquava la bocca sentì qualcosa raspare dal tubo del lavandino. Pensò subito a qualche disgustoso animaletto, tipo scarafaggio, ma il rumore era più quello di un dito che gratta sulla grata per uscire. Sorrise a quella macabra immagine. Va bene tutto pensò, solo fa che non sia un ragno, io odio i ragni. Aprì il tondino per vedere cosa ci fosse incastrato nello scarico e… sorpresa. Quello che si trovò di fronte fu proprio un dito, pieno di nocche e falangi che, improvvisamente libero, uscì con la velocità di un serpente. Cadde pesantemente all’indietro, sgomento. Ma poi il dito si trasformò, palesandosi per quello che era realmente, la lunga zampa di un ragno enorme. Afferrò un paio di forbici cercando di decapitare quella cosa nera e pelosa. Le lame seghettarono la pelle facendo scorrere le prime gocce di un sangue verdognolo, ma non riuscirono a ferire più di tanto la bestia che, irata per l’agguato, si issò fuori per tutta la sua improbabile lunghezza avvolgendo il collo di Johnny con ragnatele appiccicose e urticanti.
Fu allora che si svegliò. Era in cucina, aveva mangiato tutta la crostata e si era addormentato sul tavolo. Il dito/ragno era stato solo un sogno, ma tutto il resto, lupo mannaro e auree comprese, era vero.
Andò a dormire senza passare dal bagno, troppo scosso per lavarsi i denti e piombò in un sonno profondo, questa volta privo di incubi.
Sul frigo le calamite si mossero impazzite. Ora erano tutte in disordine a parte quattro lettere ravvicinate: “mist”.

Capitolo 5 – La piscina
Si svegliarono tardi. Un tenue sole riscaldava la casa. Alla luce del mattino tutte le brutte cose del giorno prima sembravano solo sogni orribili.
Fecero colazione nel giardino, gustandosi un panorama incredibile. Una densa foschia stava infatti salendo dal mare avvolgendo la vegetazione sottostante. Doveva essere l’effetto del caldo. La coltre non aveva nulla di spettrale, sembrava zucchero filato.
«Sarà bene che io chiami qualcuno per ripulire tutto questo schifo» disse Johnny.
«Per fortuna il signor Cantori ci ha lasciato un elenco di numeri telefonici utili.»
Carrie sparecchiò e nel tragitto dal giardino alla cucina passò davanti ai quadri restandone quasi ipnotizzata perché ora sembravano liquidi, in movimento e per la prima volta notò la donna sulla collina raffigurata nel quadro delle rose.
Di lì a un’ora arrivarono una volante della polizia, per acquisire i dettagli di quella pericolosa intrusione animale all’interno di una proprietà privata e un furgoncino per lo spurgo che sulla fiancata riportava la scritta “Zio Otto e nipote”.
L’agente era decisamente sovrappeso e sembrava essersi scolato una damigiana di vino. Sulla sua divisa, di uno smunto color cachi, la targhetta riportava il nome di Victor Pascow. Non faceva che ruttare ed emettere peti. Il gas che espelleva ricordò a Johnny l’odore del liquido antigelo mischiato a qualcosa di marcio. La mano che redigeva il verbale sembrava rispondere a impulsi esterni tanto era veloce nello scrivere quanto invece erano lenti tutti gli altri movimenti del corpo. Ogni tanto si fermava a toccarsi la testa, giustificando la pausa con un racconto poco verosimile. Sosteneva di avere una piastra in testa che gli dava problemi di dolenzia.
Mentre lo zio Otto e il nipote, Charlie detto Blaze, un gigante grande, grosso e un po’ tardo, ripulivano la piscina, Pascow continuava a raccontare la sua bizzarra storia: «Ma questa piastra un giorno mi salverà» disse allo sbigottito Johnny che lo squadrava con curiosità.
«Quando gli extraterrestri arriveranno, questa piastra impedirà agli alieni di leggermi nel pensiero. Tak!»
La supposizione che il mastodontico agente avesse fatto bisboccia la sera prima, trovava conferma nelle sue astruse farneticazioni.
«Non riusciranno a controllarmi la mente perché la mia mente è schermata, sono destinato a salvare l’universo, ragazzi. Tak!»
Improvvisamente un rumore sgradevole, come di risucchio, interruppe la fantascientifica visione del poliziotto giungendo loro dalla piscina.
«Appena in tempo» disse lo zio Otto.
«Ho ripulito tutta la vasca, ma ora la corrente è saltata. Qualche minuto prima e non avrei potuto completare il lavoro.»
Ma non era un problema di energia, o meglio lo era, ma in un modo del tutto anomalo. In casa infatti tutti gli apparecchi si erano attivati da soli e avevano iniziato a fare un chiasso del diavolo. Carrie aveva dovuto staccare la corrente, ma il frullatore aveva continuato a tritare l’aria ancora per alcuni secondi, sembrava posseduto e lei era uscita di corsa terrorizzata.
«Deve essere la foschia» disse il poliziotto.
«Dalle nostre parti la chiamiamo “caligo”, fate attenzione e ricordate quello che vi dice Pascow: la barriera formata dalla nebbia non deve essere superata. Vedete? Sono saltati anche i telefoni, secondo me ci siamo, sono gli alieni, alieni muniti di tentacoli» concluse perfettamente serio.
«Signori, il mio lavoro qui è finito» disse lo zio Otto.
«Vado via prima che la nebbia inghiotta del tutto la strada. Speriamo non tornino i lupi.»
Sembrava un copione scritto male. Erano tutti disconnessi. Sia il poliziotto sia il tecnico parlavano ognuno per conto proprio, senza curarsi delle assurdità che stavano capitando, come se fossero due personaggi di un film finiti per caso dentro la realtà.
Nel giro di pochi minuti i Summers rimasero soli, senza corrente, senza campo nei cellulari, a chiedersi se quei due assurdi personaggi erano davvero stati lì o se li avevano sognati.
Carrie rientrò in casa a controllare che i ragazzi non si fossero spaventati per via degli arnesi impazziti, Johnny invece rimase sulla veranda a guardare gli uccelli. Una quantità enorme di passeri, infatti, si era posata sui fili elettrici della strada. Erano silenziosi e i loro piccoli occhi sembravano scrutarlo di lassù.
“I passeri volano ancora”. Questa frase si impresse nella sua mente. Potrebbe essere il titolo del mio nuovo libro pensò Johnny e improvvisamente, così come era andata via, gli tornò l’ispirazione. Il suo libro avrebbe parlato di uno scrittore e del suo alter ego, un gemello che scriveva la versione cruenta dei suoi romanzi. Nel seme di questa idea, lui vide una potenzialità enorme. C’è del buono, pensò, ci posso lavorare; forse questo posto non è malvagio, è solo strano e dalle stranezze nascono le idee migliori.
Rientrò in casa. Carrie era sulla soglia della cucina, con le chiavi della macchina in mano.
«Riportala da dove l’abbiamo presa. Nebbia o non nebbia, tu ora riconsegni Cristina al signor Flagg.»
«Andiamo tesoro, non penserai che…»
«O lei o noi. Riporta quel demone rosso nella sua tana e noleggia un’auto normale. Ma sii prudente.»
Conosceva quello sguardo. I suoi occhi veicolavano il suo fermo pensiero. Niente l’avrebbe smossa e non si sarebbe rasserenata finché lui non avesse adempiuto al suo volere.
«Sta bene. Ragazzi salutate Cristina, papi tornerà con un’auto nuova ancora più bella.»
Lo abbracciarono per poi tornare ai loro giochi, ma ci fu qualcosa di definitivo in quell’abbraccio. Si sentì colmato da un affetto totalizzante che lo schiaffeggiò nel fondo dell’anima e un oscuro presagio calò su di lui.
«Che c’è? Ti sei incantato.»
«Niente, ho avuto un pensiero fugace, uno di quelli che passano lasciando una traccia che non fai in tempo a interpretare. Nulla di significativo, credo. Divertitevi in piscina. Mi sembra che ora tutti gli apparecchi elettronici della casa funzionino a dovere.»
La baciò a lungo e appassionatamente prima di montare in macchina, come a volersi prendere da lei quel qualcosa a cui ieri sera aveva dovuto rinunciare.
Lei premette la sua mano sull’erezione che tendeva i pantaloni.
«Mmm, quando torni voglio il resto.»
«Contaci.»
Ma Carrie non ebbe mai il resto perché quella fu l’ultima volta che baciò suo marito.
Capitolo 6 – La nebbia
Johnny procedeva lentamente. Vedeva a stento il ciglio della strada e non aveva alcuna intenzione di sfracassarsi nel dirupo. L’autoradio rimandava una vecchia canzone di qualche anno fa che faceva più o meno così: Hey baby, can you dig your man? Ma non ricordava chi la cantava, un certo Larry vattelapesca.
Qualcosa strisciava lungo il bordo di Cristina, qualcosa di viscido e di acquoso. Sperò di uscire presto da quel banco perché aveva strane sensazioni, sensazioni da “fine del mondo”.
I filamenti bianchi ora erano più densi e davano l’impressione di infilarsi dentro il radiatore. Sembrava assurdo, ma la foschia stava entrando nell’abitacolo. Iniziò a sudare freddo, le mani scivolose non avevano più presa sul volante; cominciò a formulare pensieri di morte. Non sarebbe mai uscito vivo da quella nebbia, lei lo avrebbe mangiato. Sì, lei, perché era viva, viva come Cristina, reale come reale era quell’assurdo lupo mannaro cieco da un occhio.
Sentì abbaiare in lontananza, latrati di bestie partorite da altri mondi ed ebbe paura, paura per la sua famiglia rimasta sola in una casa lontana da tutto. Era stato un terribile errore mettersi in viaggio e ora voleva tornare, fare inversione e raggiungere Carrie e i ragazzi, ma era impossibile. La strada era troppo stretta, non c’era spazio per manovre di alcun tipo. Poteva solo proseguire, in discesa, fino al confine del mondo conosciuto dove sicuramente l’avrebbe condotto questa macchina infernale che correva su nuvole uscite direttamente dalla bocca di Satana. Nuvole fuligginose, maleodoranti come il respiro del diavolo.
L’abitacolo era ormai invaso da questo fumo rancido. Lo stava respirando, lo stava avvelenando. Ruttò. Un sapore di visciole lo invase e si sentì lo stomaco pieno della crostata che aveva mangiato. Udì voci, sussurri, lamenti. Avvertì due forze, contrastanti, che si stavano litigando il suo cuore e la sua mente. Ora l’autoradio rimandava scariche elettrostatiche sulle quali volteggiavano le strofe di uno scioglilingua per bambini che faceva più o meno così: stanno stretti sotto i letti sette spettri a denti stretti.
Poi l’autoradio smise di gracchiare, Cristina oltrepassò la barriera e lui flippò.
Cadde. Lentamente, non in modo veloce. Non c’era attrito, non c’era aria, solo una lieve forza di gravità, ma all’incontrario. Si, perché stava cadendo verso l’alto.
Quando toccò il suolo era nudo, i vestiti erano scomparsi. Si alzò per capire se fosse ancora tutto intero e fu avvolto da un senso di vertigine. Vomitò. Poi si sedette. Fu allora che venne afferrato. Mani, mani piene di occhi lo bloccarono iniziando a trascinarlo. Non riusciva a capire se quegli arti occhiuti lo stessero stingendo o guardando. Vacillò in bilico sulla fune della pazzia e, convinto di aver perso il lume della ragione, cominciò a urlare.
Capitolo 7 – I cani
Carrie era tesa. Gli eventi eccezionali degli ultimi due giorni l’avevano scossa e l’assenza di Johnny la rendeva inquieta. Non si sarebbe rilassata fino al suo ritorno.
Jake e Holly invece sembravano impermeabili a tutto. La stavano vivendo come quella che doveva essere, una vacanza.
Johnny sarebbe tornato per ora di pranzo, quindi decise di andare in cucina a dare un’occhiata alle scorte che avevano e farsi un’idea di quello che avrebbero dovuto acquistare nei giorni seguenti.
«Jake dai un’occhiata a tua sorella, vedi di non farla andare dove non si tocca, io entro un attimo in casa.»
«Va bene mamma.»
Quel ragazzino era fin troppo sveglio. Lui le cose le sapeva già, ma non per averle studiate, erano insite in lui, innate. Sapeva nuotare, ma non era mai andato a lezione, mentre la sorella aveva ancora bisogno dei braccioli.
«Io vedo la riga mamma», le disse un giorno, «se segui la riga non ti perdi mai.»
Non aveva mai capito a che cosa alludesse veramente, ma era a questa differenza di sviluppo tra i due suoi figli (mentale, non fisica) che stava pensando quando le calamite si mossero da sole sul frigo, componendo la parola “dog” e la scimmia suonò ancora i suoi piatti, anticipando di pochi secondi le grida dalla piscina.
Corse verso l’uscio, ma si rese conto con orrore che non avrebbe potuto raggiungere i figli. Il grosso cane che la notte scorsa era entrato in camera sua si era piazzato davanti alla porta-finestra di casa. La guardava e ringhiava, facendo vibrare le corde della gola. Un secondo cane, un boxer con un orecchio bianco, stava camminando lungo il bordo della piscina, nello stesso ondeggiare ritmico che è proprio dei leoni in gabbia. Avanti e indietro a impedire a Jake e Holly di uscire dall’acqua.
«Ragazzi ascoltatemi, state calmi», gridò riuscendo a farsi sentire nonostante le urla dei figli in preda al panico.
«Il padrone deve essere in giro, sta sicuramente da queste parti e tra poco verrà a richiamare i cani. Non agitatevi, restate dove si tocca e non gridate. Ora chiamo papà.»
Prese il telefono scorrendo la rubrica. Il numero di Johnny era uno dei primi, memorizzato come “Amore”. Proprio mentre il dito stava per schiacciare il pulsante, la voce “Amore” sparì dal telefono.
«Cazzo no, di nuovo.»
Pensò a un’altra interferenza, come quella di qualche ora prima, quando tutti gli apparecchi erano andati in tilt, ma questa volta il telefono era perfettamente funzionante, solo il numero di Johnny era scomparso dalla rubrica, come se non fosse mai esistito.
Con gli occhi sempre piantati sulla piscina non ci pensò due volte e decise di chiamare il padrone di casa.
Holly era aggrappata a suo fratello, terrorizzata, ma in breve dovette mollare la presa perché suo fratello scottava.
«Jake che succede? Perché sei così caldo?»
Ma lui non rispose, era come in trance, concentrato. L’acqua intorno a lui cominciò a ribollire e Holly fu costretta ad allontanarsi ulteriormente per non ustionarsi.
Poi, improvvisamente, accadde. Una combustione. Dalle mani di Jake partirono due vampate di fuoco che avvolsero il cane sul bordo piscina (Kodjak verosimilmente), riducendolo a un ammasso di pelo bruciacchiato.
Cujo si voltò, con la bava alla bocca. Mentre il suo simile andava a fuoco spiccò un balzo verso la vasca gettandosi su Holly. Le fu sopra in un attimo.
Carrie mollò la presa sul telefono che, cadendo, si ruppe e, come già stava facendo suo marito, in un altro posto molto lontano da questo, cominciò a urlare.
Capitolo 8 Ka-tet
Spari. Rimbombi di pistole e di fucili.Arriva la Arriva la cavalleria, pensò istericamente Johnny, ma il suo pensiero, per quanto folle, non era poi così distante dal vero.
Gli occhi esplosero, le dita saltarono e i proprietari di questi arti “impossibili” sopravvissuti all’agguato fuggirono su piedi a forma di tentacolo. Una decina di esseri deformi giacevano a terra, emettendo un gas sulfureo di colore rossiccio, sopra il quale volavano in circolo centinaia di falene.
Un uomo con un cappello in testa, simile a uno sceriffo d’altri tempi, tese la sua mano a Johnny, presentandosi.
«Roland, al tuo servizio. Dico benvenuto-sai nel mio mondo e ti auguro giorni eterni e gradevoli notti.»
«Cosa… cosa erano quegli affari?»
«Mutanti. Ce ne sono parecchi da queste parti, ma li tenevamo d’occhio. Ti stavamo aspettando sai? Vieni ti presento al resto del ka-tet.»
«Ehi ehi ferma, solo pochi secondi fa ero seduto nella mia macchina e stavo guidando e ora mi ritrovo qui, in questo… cosa è di preciso questo posto? Dov’è la macchina e dove sono finiti i miei vestiti?»
«Avrai le tue risposte, vieni straniero.»
Strinse la mano del pistolero e si tirò su. Quello che vide gli confermò quello che stava sospettando e cioè che lui doveva essere morto. O morto o pazzo.
Un pallido sole illuminava un cielo color porpora. Erano colori irreali e le nuvole sembravano cariche di elettricità. Di lì a qualche ora sarebbero sorte due lune a confermare a Johnny che non era più il suo mondo quello dove si trovava adesso.
Accanto a Roland un gruppetto di tre persone lo guardava con curiosità.
«Lei è Abigail, conosciuta come Madame Fortuna.»
«Ayu Johnny, prendi queste vesti, copriti.»
«Grazie.»
«Lui è Paul Richards. Sta sulla sedia a rotelle, ma non farti fuorviare, ha mille risorse.»
«Che hai fatto alle gambe Paul?»
«Cose che capitano, ero un uomo in fuga da un’infermiera pazza che non approvava alcuni miei comportamenti. Alla fine mi ha preso, ma ti assicuro che ha avuto la peggio lei.»
«E lui è padre Halloran, viene dal tuo mondo.»
«Come va Johnny. Fatto buon viaggio?»
«Ah, era un viaggio quello? Sono precipitato in questo posto assurdo. Ditemi dove sono mia moglie e i miei figli e come fare a tornare indietro, poi, forse, sarò disposto ad ascoltare tutte le stramberie che avrete da raccontarmi.»
«Non temere, loro stanno bene. Abbiamo mandato i nostri “uomini alti in soprabiti verdi” a proteggerli e comunque Jake se la cava benissimo anche senza il nostro aiuto. Più tardi potrai vederli. Abbiamo una piccola sfera che consente di “guardare” nel tuo universo. Ora vieni. Dobbiamo tenere consiglio e spiegarti quello che sta succedendo.
«Noi siamo “uno in molti”, ora che sei arrivato tu, il nostro ka-tet è completo e possiamo percorrere senza timore la strada che il destino ci ha riservato.»
Roland fece un disegno a terra con un bastoncino. Sembrava una clessidra, stretta al centro, con due ampolle all’estremità, molto tonde.
«Vedi Johnny, ci sono molteplici mondi e ognuno ha il suo pianeta gemellante. Ciascuna coppia di mondi, qui rappresentata sulla sabbia dal mio modesto schizzo, è posta su un diverso livello della “Torre Universo” che regge il cosmo. Le forze del caos hanno creato una frattura tra il pianeta Terra e il suo mondo gemellante che si muove su un asse differente. Qui infatti il sole sorge a sud e tramonta a nord.
«A causa di queste fratture, o sottilità, l’asse portante dei mondi gemellanti “scricchiola” e crea delle “intrusioni”, mettendo in contatto i due pianeti che in realtà dovrebbero restare su di un piano speculare, ma separato. I due mondi infatti non devono comunicare mai, essendo l’uno il contrappeso dell’altro. Un passaggio di materia da uno all’altro crea scompensi, disallineamenti, rotazioni errate. Il passaggio di licantropi e vampiri nel tuo mondo (i can-toi) è dovuto proprio a questa frattura che va ricomposta, altrimenti crea delle “degenerazioni”. Questi che stiamo vivendo sono giorni di disfacimento e il disallineamento è quasi irreversibile. Per quanto folle potrà sembrarti, l’equilibro dell’intero universo si regge su questa bilancia cosmica.»
«E cosa c’entro io con l’equilibrio dell’universo?»
Fu Abigail a rispondere alla domanda di Johnny.
«Tu e Jake siete dei “frangitori”, siete i piatti di questa bilancia, per via della vostra “luccicanza”.
«Il tuo passaggio da un mondo all’altro (noi lo chiamiamo “flippare”), è stato possibile grazie a tre elementi: la foschia, la crostata e il vettore (che sarebbe la macchina).
«Sapevamo quando sarebbe arrivata la nebbia, abbiamo fatto in modo che tu trovassi il dolce che grazie ai suoi ingredienti prepara il corpo al passaggio e per il resto, beh, ci siamo serviti del nemico. Le forze del male avevano messo gli occhi su di te e avevano mandato Flagg.
«La macchina di Lelang Flagg è un mezzo malvagio non un mezzo buono, per questo sei stato trovato dai mutanti, i quali ti avrebbero dovuto portare da Munshun, detto anche Gogmagog o il Frastagliato, l’essere che tiranneggia questo universo e che vuole la stessa cosa che stiamo cercando noi, ma per fini opposti ai nostri. Ma noi eravamo pronti e ti abbiamo salvato.»
«Allo stesso modo», questa volta fu padre Halloran a parlare, «abbiamo mandato i nostri centurioni a proteggere la tua famiglia e a guidare Jake verso la sua missione.
«Tu e Jake avete lo stesso compito da portare a termine. Dovrete prendere la pietra che ridia spessore alla frattura e usarla per chiudere il buco. Nel tuo mondo la pietra, il Talismano, si trova nelle grotte di Nerja, in questo a Cibola nelle gole di Boo’ ya Moon.»
Johnny era sconvolto, ma l’assurdità di tutto quel discorso trovava concretezza nelle cose che vedeva e in quelle che gli erano capitate e dentro di sé sapeva che erano vere.
«Come posso trovare questa pietra? E come può farlo mio figlio? Ha solo sei anni! Noi non abbiamo quel potere che dite.»
«Ce l’avete», disse Paul, «dovete solo imparare a incanalarlo e a usarlo per il fine supremo, per questo ci siamo noi. Il ka-tet sarà la tua guida. Noi aiuteremo te e Jake a combattere il Nodo, il gruppo di mutanti dietro i quali si celano le forze del Caos che vogliono il crollo per aprire definitivamente un varco tra i due mondi e sbilanciare la Torre dell’universo.»

Capitolo 9 – La cupola
«Il ragazzo ci ha preceduto» disse James.
«Già, è stato bravo, ha fatto tutto lui», rispose Gage.
«Vai dalla donna, ai piccoli penso io.»
«Voi siete i centurioni?» disse Jake. «Gli uomini alti in soprabito verde?»
«Esatto. Vedo che sai già tutto e non hai bisogno di altre spiegazioni, ma forse tua mamma desidera qualche chiarimento. Li hai ridotti tu così questi due?»
«Sì signore, non volevo, io amo i cani, ma sono stato costretto a farlo. Credevo di non aver fatto in tempo, pensavo che Holly fosse stata sbranata dal San Bernardo, ma mi sbagliavo per fortuna e sono riuscito a bruciare anche lui. Come ci riesco? Tu sai spiegarmi perché posso fare quello che ho fatto?»
«Vieni, andiamo dentro. Tu e tua sorella avete bisogno di asciugarvi e tua mamma necessita di qualche spiegazione. Dobbiamo tenere consiglio.»
E così James e Gage Coffee («si scrive come il caffè vero?», chiese Holly, felice di mettere in pratica le sue nuove conoscenze di scrittura), diedero a Carrie la stessa spiegazione che Roland, Halloran, Abigail e Paul rilasciarono a Johnny.
Quello che nessuno di loro disse fu che Johnny e Jake avrebbero dovuto operare su piani paralleli, ma diversi. Se avessero fallito, molto probabilmente sarebbero morti, se fossero riusciti, sarebbero rimasti separati. Incollare la frattura avrebbe sì salvato l’equilibrio universale, ma li avrebbe anche divisi per sempre. Quella che si apprestavano a compiere era un’azione irreversibile. Saldato lo scollamento dei mondi, ognuno sarebbe rimasto lì dov’era.
«Vedi Carrie, noi siamo i centurioni cui è stato dato il compito di portare Jake a Nerja. Altri centurioni, in un’altra versione di questo mondo, stanno aiutando tuo marito. Una volta giunti nelle grotte dei Talismani, Jake e il padre dovranno fronteggiare i due guardiani, Atropo e Cloto, che sorvegliano le pietre e convincerli a lasciarli passare. A quel punto la forza dei due Talismani potrà essere incanalata, grazie alla “luccicanza”, in un unico flusso salvifico.»
La verità era troppo assurda, folle e irrazionale per poter essere accettata, ma non esistevano alternative, erano in un vicolo cieco, alla mercé di forze imponderabili che a quanto pare avevano operato alle loro spalle per tutti questi giorni, conducendoli fin lì.
«Ci sono esseri, vampiri li chiamate voi, che tenteranno di ostacolarci in tutti i modi e tu, Carrie, tu resterai qui, mentre io e Gage condurremo Jake a Nerja, verso il suo ka. Ma non temere. Tu e Holly sarete protette. Ora utilizzeremo l’energia residua dei due cani per creare una cupola invisibile a protezione di questo luogo. Dovrebbe bastare per impedire ai vampiri di entrare.»
Ciò detto James e Gage uscirono di casa avvicinandosi ai due animali. I corpi erano tiepidi e la loro aura “sostava” ancora sopra il pelo. Fecero una strana operazione di risucchio con la bocca, come se stessero sorseggiando una coca cola con la cannuccia. Fiotti di luce si staccarono dalle bestie per confluire all’interno dei fratelli Coffee. I cani si afflosciarono e in breve furono una cosa sola con il terreno. Il tutto durò meno di un minuto, poi i due centurioni si posizionarono davanti alla villa, poggiarono le mani a terra e con un verso di lacerazione lasciarono fuoriuscire dalla bocca tutta quell’energia. Scariche elettrostatiche vibrarono lungo il perimetro della casa, poi una barriera invisibile si andò formando e avvolse le pareti come i souvenir con la neve finta rinchiudono al loro interno le riproduzioni dei monumenti del mondo.
I Coffee sembravano esausti.
In un sussurro Gage disse: «Ecco. Ora nulla può entrare e nulla può uscire da questa casa.»
Jake fu il primo ad avvicinarsi alla cupola invisibile. Allungò le mani, timoroso, verso la barriera trasparente, fino a che i suoi polpastrelli non trovarono una resistenza. Piccole onde di energia vibrarono al contatto. Era come toccare una Crystal Ball gigante. Si fletteva, ma non di molto.
Carrie, che non credeva a nulla di tutto ciò, volle accertarsi di persona che non si trattasse di un brutto numero di magia e tastò a lungo, cercando una spiegazione a tutto ciò.
«Avete detto che nulla può uscire. Allora come andremo via da questo posto?»
«Tu e Holly resterete qui, al sicuro. Noi porteremo Jake a Nerja attraverso il pozzo nascosto sotto la botola del ripostiglio. Nell’improbabile caso in cui la cupola dovesse cedere, la vostra salvezza sta nel quadro, quella è la via di fuga. Vedi, ci sono imbuti, passaggi verso altre dimensioni, possiamo chiamarli porte, per semplificare. Alcune, come il quadro, sono vie di fuga senza uscita; servono solo a nascondersi, ma non portano da nessuna parte in particolare. Altre, come il pozzo di cui parlavo, sono scorciatoie che conducono in breve tempo verso luoghi distanti tra loro, utilizzando dei buchi, dei canali di collegamento. E poi ci sono le “combinazioni”. Tuo marito ha usato una di queste per accedere a un livello differente e passare a un altro mondo. Le combinazioni sono molto pericolose e richiedono una concatenazione di eventi difficile da realizzare. Se non va tutto per il verso giusto, rischi di smaterializzarti e diventi parte del nulla.
«Lo so, ti sembra tutto assurdo, ma non lo è. Il pensiero è limitato, si ancora alla razionalità e non concepisce le cose che non può capire, relegandole ad atti di stregoneria o di magia. Ma il pensiero a volte diventa fede e la fede ci fa credere a tutto, anche a quello che non pensiamo realizzabile.
«Se tutto andrà come deve, una volta che i Talismani verranno posizionati, la cupola sparirà e nessun essere di altri mondi vi verrà a cercare. Se qualcosa dovesse andare storto ricordati del quadro, è il vostro ripostiglio segreto, sarete i conigli che spariscono nel cilindro del prestigiatore. Abbi fede. Saluta tuo figlio e auguragli buona fortuna.»
Fu così che il piccolo Jake, salutò la madre e la sorella, per adempiere
(Talismano)
a un compito troppo grande anche per un adulto, figuriamoci per un bimbo di sei anni. Ma la risolutezza con cui accettò il ruolo che forze incomprensibili gli avevano assegnato, regalò a Carrie la certezza che suo figlio ce l’avrebbe fatta.
Capitolo 10 – I sette
Alla fine del loro discorso Roland prese Johnny da parte. C’era una coda al suo racconto che andava spiegata e lui da solo non poteva farlo, aveva bisogno di un altro ka-tet, quello composto dai sette, ragazzi (ormai uomini) che abitavano negli Avamposti e che un tempo
(stanno stretti)
avevano affrontato le forze del Caos
(sotto i letti)
scendendo nei Pozzi Neri
(sette spettri)
e le avevano sconfitte
(a denti stretti)
utilizzando il rito di Chud. Quello infatti che James e Gage avevano taciuto al piccolo Jake è che una volta superato lo sbarramento di Cloto e Atropo ci sarebbe stata un’ulteriore prova da superare, una prova mentale la cui complessità non poteva essere spiegata a parole, ma che andava illustrata su di un piano “superiore”.
«È strano questo posto» disse Johnny a Roland, «sembra mille secoli indietro rispetto al mio. Non ci sono mezzi meccanici, portate vesti che dalle mie parti dovevano essere di moda più o meno nel Medioevo, eppure sembrate sapere molte più cose e soprattutto sembrate avere dei “poteri” che al mio umile occhio di terrestre altro non sembrano che magia.»
«Hai ragione. Il mondo è andato avanti. Un tempo questo era un posto rigoglioso e sviluppato, ma poi è stato governato dal re rosso e a lui è succeduto Gogmagog ed entrambi hanno portato distruzione, essiccando le conoscenze, privando la gente delle conquiste, facendo regredire il progresso. Ma siamo in molti ad avere conservato la sapienza delle arti magiche. I sette hanno combattuto il regno del terrore e ora loro doneranno a te le conoscenze che ti serviranno per compiere al meglio la tua missione. Ecco, siamo arrivati. Ti aspettano, sono al capanno.»
Di fronte a loro c’era una specie di baracca. Quattro assi messe in croce che sembravano reggersi a malapena. Una porticina in legno si aprì liberando una nuvola di fumo dalla quale emerse una bellissima dama dai capelli rosso fuoco.
«Benvenuto Johnny, io sono Bev, entra, ti presento agli altri, il rito del fumo sta cominciando.»
Varcò la soglia timoroso, spaventato da quella nube attraverso la quale cercava di percepire i volti degli altri sei. Il primo a parlare fu un uomo affetto da balbuzie. Ma quell’invalidità non scalfiva affatto la sua autorità agli occhi degli altri. Era evidentemente il loro capo.
«C-Ciao J-Johnny, io s-sono B-Bill. Apri il c-cuore e la m-mente alla c-conoscenza e apprendi il rito di C-Chud.»
Capitolo 11 – Pipistrelli
«Mamma perché Jake è andato via? E papà? Quando torna papà?»
Adesso che erano rimaste sole Carrie comprese che il difficile doveva ancora arrivare. Avevano superato delle prove destabilizzanti per chiunque, ma lo avevano fatto tutti insieme. Ora invece no. Il nucleo familiare si era disgregato e aveva paura che la parte più debole fosse rimasta lì, in quello che doveva essere il luogo d’indimenticabili vacanze e che invece adesso era solo un posto sconosciuto dentro una campana di vetro.
Mentre Johnny apprendeva la via della conoscenza, venendo edotto del rito di Chud, Carrie e Holly osservavano il cielo terso divenire sempre più scuro. Era prevista un’eclissi totale di sole, un fenomeno per il quale si erano preparate già prima di partire, acquistando gli indispensabili vetrini per schermare gli occhi. Ma ora quello che avevano atteso come un magnifico evento, appariva più come un ulteriore segnale di sventura e con una certa apprensione Carrie osservò la luce del sole pian piano ritirarsi.
All’improvviso, dalla camera la scimmia sbattè i piatti anticipando il primo tonfo, come di un pomodoro o di un’arancia spiaccicata sul tetto. Carrie tese le orecchie e dopo pochi secondi ne sentì un altro. Pian piano i rumori si fecero più ravvicinati e in pochi secondi la casa, sotto la protezione della cupola, fu bombardata da una grandinata.
Ma non erano chicchi di ghiaccio quelli che il cielo riversava sulla cupola, erano scure palle di pelo con le ali simili a… pipistrelli.
Alcuni di quegli esseri si spappolarono sulla cupola riversando liquido organico sulla sfera, ma la maggior parte di loro si ammassò alla ricerca di un’entrata, dibattendo le ali e facendo un chiasso infernale. Quei pipistrelli erano messaggeri, erano gli occhi di Barlow il vampiro. Non avrebbero arrecato alcun danno alle due fanciulle barricate in casa, ma sarebbero stati il periscopio del loro mandante. Avevano il compito, in quel breve lasso di tempo che era stato loro concesso dall’eclissi, di trovare un punto debole nella cupola, per permettere al loro padrone di stanare Carrie e Holly e farne la sua arma di ricatto per bloccare Johnny e Jake, la cui missione andava fermata al più presto.
Quando il sole, dapprima timido, poi sempre più audace, trovò il modo di uscire dal cono d’ombra creato dalla luna, i pipistrelli iniziarono a fremere e a mandare segnali rumorosi simili a lamenti. Il loro pelo cominciò a fumare e in breve tutto il loro corpicino subì un processo di combustione che li trasformò in fiammelle. Sembravano tanti fuochi fatui, piccole appendici di torce prive dell’impugnatura che galleggiavano sulla superficie della cupola, riscaldandone il materiale di cui era composta, senza però arrivare a scioglierlo.
Il puzzo atroce, quel nauseabondo odore di decomposizione causato dalla morte di migliaia di quegli esseri, aleggiò sulle teste di Carrie e Holly con la dirompente forza di un presagio di morte.
Da qualche parte, nascosto in un buio antro, Barlow sorrise soddisfatto di quel che aveva visto. Sarebbe entrato quella stessa notte. Avrebbe preso le donne e dato il via alla controffensiva.
Capitolo 12 – Il viaggio di Jake
C’era un lucchetto a serrare la botola. Gage prese dal ripostiglio una vanga argentata e fece saltare la chiusura. L’imbocco portava a un piccolo ingresso che a sua volta introduceva a due scale a chiocciola perse nelle più buie profondità.
Mentre i Coffee richiudevano la botola sopra le loro teste, Jake si era già posizionato sui primi pioli della scala di destra, a scrutare abissi immensi che l’occhio umano non riusciva a cogliere.
«No, no, piccolo Jake» lo ammonì James. «Fossi in te cambierei scala.»
«Perché? Dove conduce questa?»
«Più che “dove” sarebbe meglio dire “quando”. Mi limiterò a dirti che non è il nostro percorso, per fortuna. La scala giusta è quella di sinistra. Vieni, attento che si scivola.»
I pioli scendevano per circa un chilometro e conducevano a un tunnel umido dal cui soffitto penzolava edera come ragnatela.
Non si vedeva granché, ma a quanto pare era un percorso noto ai Coffee che avanzarono spediti fino al blocco. Una specie di cartello, simile a quello dei lavori in corso, sbarrava la via. Gage prese per mano Jake e lo aiutò a issarsi oltre la barriera.
«Ora occhio all’equilibrio, potresti avvertire un senso di vertigine.»
Jake non sapeva bene cosa fossero le vertigini. Era una parola che aveva sempre associato all’altitudine, ma qui non c’erano sporgenze, né affacci, quindi non sapeva cosa aspettarsi. Quando la vertigine arrivò, gli fu chiaro perché il suo centurione avesse parlato di equilibrio. Non gli sembrava più di camminare in orizzontale, ma in verticale, come se muovesse i suoi passi sulla parete invece che sul pavimento, in spregio a quella legge che lui ancora non aveva studiato, ma che conosceva bene e che si chiamava forza di gravità. Ripensò a quando l’anno scorso il papà l’aveva portato per la prima volta sulla montagna russa dei bambini. Quando era sceso gli girava la testa, non aveva più la corretta percezione del corpo nello spazio. Pensò al Luna Park e si fece forza, convincendosi che di lì a poco quella fastidiosa sensazione di sdoppiamento sarebbe svanita.
E così fu. Pochi passi e oltrepassarono il varco, sbucando su un enorme prato pieno di papaveri.
In fondo al campo, in lontananza, un bosco.
La sua fervida immaginazione gli fece credere di essere entrato in uno dei suoi libri di fiabe, quelli che la mamma gli leggeva sempre prima di andare a dormire.
Ah, quanto vorrei essere con la mamma ora, pensò con una nota di malinconia. Una lacrima gli scappò dall’occhio, cogliendolo impreparato. Proprio mentre pensava che di lì a poco avrebbe pianto e nulla e nessuno avrebbe potuto impedire al rubinetto di aprirsi, sentì un fruscio nel sottobosco e si figurò il lupo cattivo di Cappuccetto Rosso.
Fu allora che i Coffee gli porsero una maschera anti gas.
«Conosci le ridenti, Jake? Sono donnole, donnole della peggior specie. Le chiamiamo così perché il loro verso è simile a quello delle iene, ma la loro caratteristica principale è un’altra. Emettono gas micidiali dall’ano. Se respiri, il tuo sistema nervoso va in tilt e il corpo si paralizza. In pochi minuti quelle bestiacce ti saltano addosso e ti divorano. Con la maschera non hai da temere nulla. Sono animali pavidi, attaccano solo gli esseri in difficoltà, quelli bloccati dal loro puzzo. Finché cammini non osano aggredirti.»
Jake indossò la maschera senza problemi. Era evidente che si trovava dentro un libro di fiabe. Ora non pensava più a Cappuccetto Rosso, ma a “Gastone il puzzone”, una storiella simpatica su un orsetto lavatore “scoreggione”. Quello sì che era un bel libro. Era sonoro e ogni volta che spingevi un tasto usciva il rumore di una puzzetta diversa. Le lacrime di poco prima diventarono un ricordo, stemperate dal sorriso di chi ora pensava davvero di essere diventato il principe delle favole e quindi, come tutte le favole, convinto che ci sarebbe stato un lieto fine. Non vedeva l’ora di raccontare quest’incredibile avventura ai suoi amichetti di scuola, Teddie, Chris, Gordie, Vern e Gwendy.
La camminata durò un’ora poi, giunti a una radura da cui si poteva scorgere una casetta con il bucato steso ad asciugare, si levarono le maschere.
«Il territorio delle ridenti è finito. Vieni, ti presentiamo una simpatica vecchietta, si chiama Tabitha.»
Alcune oche starnazzavano nel recinto antistante la casa. I tre bussarono. Dall’interno non giunse alcuna risposta, ma James aprì lo stesso la porta. Varcarono la soglia trovandosi al cospetto di alambicchi e calderoni.
«Entrate, entrate, vi raggiungo subito.»
La vocina della vecchia aveva fatto sobbalzare Jake che non aveva capito dove fosse la padrona di casa. I suoni sembravano giungere dal piano di sopra, ma qualcosa nell’acustica di quel posto doveva essere sbagliata se è vero che Tabitha sbucò da una porticina laterale.
«Vediamo, che cosa abbiamo qui, ah sì, un puro.»
Nel suo strano accento strascicato le uscì “purro”.
Jake era intimidito da quell’essere che sembrava fatto di cartapesta.
«Sedete, sedete, vi porto qualcosa da bere.»
Tabitha sparì in cucina mentre un piccolo furetto sbucò da un’apertura mettendosi a odorare Jake che lo guardò incuriosito.
«Vedo che hai già conosciuto Oy. Bene, bene. È un bimbolo, sai? Tu gli piaci.»
«Cos’è un bimbolo?»
«Un bimbolo è un bimbolo. Non ne avevi mai visto uno?»
Sembrava una puzzola, simile alle donnole che aveva intravisto nel bosco, ma più piccolo e con una striscia nera sul dorso.
«Ecco, bevete pure le mie tisane mentre io mostro a Jake una cosa.»
Da sotto un telo scoprì una grossa biglia al cui interno sembrava esserci del fumo.
Pian piano il fumo si diradò e a Jake parve di scorgere l’interno di una capanna.
«Poggiaci le mani sopra ragazzo. Vedi qualcosa di interessante? La sfera mostra a ciascuno cose differenti, perché differenti sono i nostri compiti.»
Jake vi poggiò sopra le dita e subito si sentì risucchiato in un vortice. Sparì tutto, rimase solo il fumo. Il fumo, un capanno, sette persone più… suo padre. Jake pensò che quelli altro non fossero che i sette nani, Rea doveva essere Biancaneve o chissà, forse la strega cattiva e lui e il suo papà due diverse versioni del Principe Azzurro e del Cacciatore. Mentre pensava a tutto questo cadde in trance, connettendosi alla mente di Johnny. Ora nel capanno, ad apprendere il rito di Chud, c’era anche lui.

Capitolo 13 – Il viaggio di Johnny
Non sapeva dire quanti minuti fossero passati da quando era entrato nel capanno. Forse ore. Johnny aveva perso la cognizione del tempo, forse proprio perché “tempo” era stato l’argomento principale di quel consiglio, fatto di poche parole e di molte visioni. Tra le altre cose aveva appreso che in quel mondo il tempo non scorreva alla stessa velocità del suo, ma in maniera un poco accelerata. La sua mente si era schiusa alla conoscenza, aveva appreso, aveva conosciuto l’antichità del brodo primordiale, la saggezza della “tartaruga”, equilibratrice del cosmo, l’ineluttabilità del “mangiatore di mondi”, la ciclicità del macroverso, la forza dei raggi che tutti insieme collegano gli universi, il mistero della migrazione nei corpi e visto la disperazione e la rovina create dalla fucina del re rosso, ma anche la magnificenza e il coraggio di un’antica genia, oggi quasi estinta, quella dei pistoleri.
Apprese tutto ciò ed ebbe paura che la sua mente non fosse in grado di conservare queste nozioni e che suo figlio non sarebbe sopravvissuto alla prova che li attendeva.
Se quello che Bill, Ben, Richie, Stan, Eddie, Bev e Mike gli avevano detto era vero, lui e Jake avrebbero dovuto affrontare un demone, che ai loro occhi avrebbe assunto la configurazione delle loro paure più grandi. Per sconfiggere tale demone sarebbe stato necessario l’annullamento del sé e il raggiungimento di uno stato di serenità e di nitore spirituale. Dovevano legarsi al demone in un abbraccio mortale e combattere con lui una battaglia di volontà telepatica. Il primo a ritirarsi avrebbe ceduto il potere all’altro.
«Vieni», gli disse Roland dopo averlo estratto semi incosciente dal capanno dei sette.
«Ora devi riposare. Domani partiamo presto, andiamo al villaggio di Cibola dove conoscerai “il viaggiatore”.»
Johnny piombò in un sonno senza sogni, profondo come l’universo che i sette gli avevano mostrato.
Fu svegliato dal gracchiare di un corvo. Il nero pennuto lo osservava dall’alto di un ramo. Era da poco sorta l’alba e la sua mente formulò un pensiero buffo: a quanto parte qui non ci sono galli a salutare la prima luce del sole, qui usano i corvi come sveglia. Si misero in cammino avviandosi lungo i binari arrugginiti di quella che doveva essere una vecchia ferrovia. Le rotaie sparirono dopo mezza giornata di cammino, inghiottite dal terreno. Fu allora che Johnny si avvide di strani segni rossi sul selciato di quella che molti anni primaletterale doveva essere stata una strada.
«Cosa sono questi cerchi?»
«Stanno a indicare i caduti. Vedi, un tempo il re rosso si divertiva a organizzare gare per il proprio diletto e per quello del popolo. Uno dei giochi più in voga era una marcia dalla contea di Lud a quella di Topeka. Una marcia lunga e spietata, che avrebbe ricompensato il vincitore con tante di quelle pepite d’oro che sarebbero bastate per tre vite, ma a che prezzo? Il prezzo di novantanove morti. Cento partecipanti, un’unica regola: vietato fermarsi, pena la fucilazione. La gara terminava quando il penultimo dei sopravvissuti, stremato da tanto camminare, moriva.»
«Ma è terribile!» disse Johnny. «Cosa induceva le persone a gareggiare? Tutte le pepite del cosmo non valgono il rischio.»
«Non sceglievano loro, venivano estratti a sorte. Se ti rifiutavi venivi incarcerato a vita e ti lascio immaginare le condizioni delle segrete. Tanto valeva provare, morire su una strada, all’aperto, durante il tentativo di realizzare un’impresa, piuttosto che al chiuso di una prigione, senza luce, con poco cibo rancido e in compagnia dei topi.»
Il villaggio ormai era ben visibile, forse un paio di chilometri a piedi. Mentre Johnny ripensava alla barbarie di quell’antica maratona, un cane sbucò da dietro gli alberi ringhiando al gruppo. Johnny, temendo potesse trattarsi di Cujo, si mise subito sul chi va là, ma fu Roland a tranquillizzarlo.
«Silver! Vieni qui bella! Non temere Johnny, è solo il pastore tedesco del villaggio, che non fa male a una mosca. Guarda come scodinzola. Secondo te quanti anni ha?»
«Non sono un esperto di cani, ma sembrerebbe piuttosto giovane. Direi cinque o sei.»
«Nessuno lo sa. Gli anziani del villaggio se la ricordano prima ancora che venisse Gogmagog. È la famosa “leggenda del vento” secondo la quale, tanti anni fa, al centro del villaggio esisteva un vettore che, in corrispondenza dell’allineamento delle due lune, permetteva, a chiunque lo percorresse nel giusto senso, di ringiovanire. Pare che Silver si sia fatta un bel giro completo sul vettore, per questo sembra così vispa, ma in realtà è una nonnina.»
Johnny stentava a credere a quella leggenda, ma in fondo, pensò, non era poi tanto più strampalata di quello tutto quello che gli era capitato dal momento in cui il suo aereo era atterrato in Europa.
Così, scortato dal pastore tedesco, il gruppo arrivò a Cibola dove vennero accolti da Mr. Epping, un simpatico vecchietto che non solo sosteneva di venire dal mondo di Johnny, ma addirittura dall’anno 1963.
«Benvenuto Johnny, saluta il tuo ka-tet. D’ora in poi proseguirai da solo, ma non temere, loro saranno sempre al tuo fianco se tu, nelle difficoltà, saprai tenere i nervi saldi e ricorderai il volto dei tuoi avi.»
Roland, Abigail, Halloran e Paul abbracciarono Johnny.
«Mi raccomando», gli disse Roland, «quando ti troverai dinanzi alla prova finale, non colpire con la mano, colpisci con la mente, ricorda il rito di Chud.»
Il quartetto partì, lasciando in Johnny una sensazione di incompiutezza, di frasi non dette e di mezze verità che lo fecero sentire debole e del tutto inadeguato al compito che lo attendeva.
«Siedi caro Johnny» disse Mr. Epping.
«Prima delle istruzioni c’è una cosa che dobbiamo fare. Hai chiesto di vedere la tua famiglia, quindi… ecco a te, prendi questa sfera.»

Capitolo 14 – Il viaggio di Carrie e Holly
Carrie e Holly stavano dormendo ed entrambe stavano sognando. La mamma sognava i quadri. I due dipinti erano confusi, mischiati, e lei era una dea vendicativa che senza paura si apprestava ad attraversare il campo di grano, dove si nascondevano esseri immondi, che la volevano ghermire. Alla fine del campo l’aspettavano le rose, meravigliose e potenti rose rosse che si stendevano come un tappeto nuziale davanti alla Torre, luogo potente dove si annidava la conoscenza.
La figlia invece sognava il bosco. Si era allontanata per fare pipì e così era scivolata lungo un terrapieno, sparendo alla vista di suo fratello. Faceva freddo, cominciava a imbrunire e lei aveva solo una radiolina a farle compagnia che non trasmetteva musica, ma la radiocronaca della partita del suo giocatore di baseball preferito. Il suo Tom aveva fatto un fuori campo e dagli spalti la gente urlava di gioia. C’era anche una banda musicale che sottolineava l’evento attaccando un motivetto dove risuonava forte il rumore dei piatti. Era un rumore via via più insistente che sovrastava tutti gli altri e che alla fine svegliò madre e figlia.
Si trattava della scimmietta.
«Perché vuoi portartela a letto?» le aveva chiesto Carrie prima di andare a dormire.
«Non hai capito che quella scimmia porta solo sventure? Ogni volta che suona i piatti succede qualcosa di brutto.»
«No mamma» aveva ribattuto Holly, «ogni volta che suona i piatti lei ci vuole avvisare. Vedrai, sarà il nostro allarme contro le cose cattive.»
E infatti così fu. Grazie alla scimmia, Carrie e Holly capirono che qualcosa non andava per il verso giusto lì fuori.
Il vampiro Barlow, mutando forma, stava passando dal condotto della piscina, unico collegamento con la casa a non essere interrotto dalla cupola.
Senza pensarci un attimo, Carrie corse in cucina. Sul frigo le calamite componevano la parola “roses”.
Tornò in salone. Fuori dalla finestra una tiepida alba si affacciava leggera sulla linea dell’orizzonte proiettando sui due quadri una luce innaturale che li faceva sembrare incredibilmente grandi.
L’orologio digitale, che proiettava la sua luce sulla parete, ricordava impietoso che era il giorno di ferragosto. L’avrebbero dovuto trascorrere tutti insieme in un “Ciringuito”, uno di quei ristoranti sulla spiaggia, a guardare i fuochi d’artificio, e invece la famiglia era smembrata e stava scappando in tutte le direzioni. I due quadri avevano inglobato le pareti, sembravano due enormi poster. Il muro era sparito. A guardarci dentro davano l’impressione di essere due affacci su mondi sconosciuti. Forse bastava davvero un passo, il balzo della fede, per finire dentro il campo di grano, o quello di rose.
«Mamma.»
La voce di Holly era poco più che un lamento, a indicare i topi, la forma che aveva assunto Barlow per entrare in casa. Orribili squittenti bestioline che stavano salendo uno dopo l’altro a formare una piramide che si stava antropomorfizzando e che di lì a poco avrebbe rivelato loro il vero volto di Barlow.
«Mamma, rose o grano?» chiese Holly di fronte ai quadri.
«Rose», rispose senza incertezza Carrie e madre e figlia si tuffarono letteralmente dentro il quadro.

Capitolo 15 -Le sfere
Anche Jake aveva perso la cognizione del tempo. Dopo che la sfera aveva cessato di trasmettere, aveva accettato l’infuso di Rea che lo aveva risvegliato da quello strano intontimento fatto di fumo e di parole incomprensibili, più simili a visioni che a frasi. Era uscito dalla capanna della vecchina senza rendersi conto che al suo fianco, oltre ai Coffee, ora c’era anche il bimbolo.
I tre più l’animaletto entrarono in un tunnel, una specie di grotta il cui ingresso era nascosto dalle piante.
«Sei pronto Jake? La scorciatoia sta per finire. Abbiamo fatto una piccola deviazione, ma ora ritorniamo al tuo mondo, sentirai le stesse vertigini della prima volta.»
Jake si sentiva già stordito di suo e non aveva molta voglia di ripercorrere l’esperienza del pavimento all’incontrario. Oy gli si arrampicò su per la gamba andandosi ad acquattare dentro la tasca dei pantaloni.
La sensazione di calore lungo la coscia e la gioia per aver trovato un nuovo amico lo distrassero infondendogli nuova energia e senza neppure accorgersene uscì dalla galleria trovandosi di fronte a un nuovo antro.
«Benvenuto alle grotte di Nerja.»
Jake si girò in direzione della voce. Un ragazzo seduto su una roccia lo stava scrutando sorridente.
«Io sono Scott Morton, piacere di conoscerti. Vieni, è giunta l’ora delle spiegazioni.»
Il bimbolo lo precedette uscendo dalla tasca e infilandosi nell’ampia apertura della montagna.
Ma i Coffee erano rimasti indietro, sul limitare del tunnel che li aveva condotti sin lì.
«Voi non venite?» chiese lamentoso Jake.
«Il nostro compito finisce qua, almeno il nostro compito con te. Abbiamo altri impegni inderogabili che ci chiamano, ma non temere, sei in buone mani. Hai un potere grande Jake, sappiamo che saprai usarlo al meglio, tu sei un “tramite”.»
«Vi prego, potete restare un altro po’?»
Ma James e Gage non erano inclini ai sentimentalismi. Strinsero Jake in un fugace abbraccio e lo lasciarono alle attenzioni di Scott.
«Dovrai camminare per circa cinque minuti prima di incontrare Cloto. Non preoccuparti, sarà un percorso abbastanza illuminato perché come vedi l’apertura della grotta è piuttosto ampia e consente alla luce di penetrare all’interno per alcuni chilometri.
«Non spaventarti di Cloto. Lui è un guardiano, ma non può farti niente. Non può toccarti, ti farà solo un indovinello. Finché non indovini non potrai proseguire oltre; una volta risolto l’enigma, ti lascerà passare.
«Dopo aver risposto e trovato la pietra, percorri alcuni passi all’interno della grotta fino al pirin moh, una costruzione a forma di cilindro. C’è una specie di binario che corre all’interno del cilindro, un flusso energetico che scorre dal basso verso l’alto e che è interrotto a metà. Quella è la frattura. Tu dovrai poggiare lì il Talismano e ricomporre lo strappo all’interno dell’ini, il pozzo dei mondi, ma forze oscure tenteranno di impedirti tutto ciò. Tu grazie alla tua mente che è come un cielo stellato, infinito, legherai quelle paure, le farai tue, le domerai e grazie al rito di Chud, che altro non è che la formula magica delle fiabe che ti legge ogni sera la mamma, le farai evaporare. Scomparse le paure nulla più ti impedirà di sistemare la pietra nel suo alloggiamento. Il Talismano resterà in bilico a oscillare, come sostenuto da un campo magnetico, in attesa che una pietra gemella venga posizionata da tuo papà all’interno di un analogo cilindro. Se tutto andrà per il verso giusto, una volta che i due Talismani saranno al loro posto, tutte le scollature si salderanno e potrai uscire dalla grotta.»
Poi, più o meno mentre suo padre riceveva da Epping una biglia poco più grande di un uovo sodo, Scott consegnò un analogo oggetto a Jake.
«Ora guarda dentro la sfera. È composta dello stesso materiale di quella di Rea. È speciale, ti darà la forza per affrontare la prova.»
Jake si avvicinò. Era come guardare dentro uno schermo diviso a metà. Da una parte mostrava una capanna, dall’altra un prato.

Capitolo 16 – Intercapedine
Alle loro spalle la casa non c’era più, il buco si era chiuso lasciando intendere che il vampiro, per motivi oscuri, non potesse superare quella soglia.
La domanda era: come sarebbero tornate indietro? Ma ci avrebbero pensato a tempo debito, ora dovevano capire dove si trovavano e forse la donna in cima alla collina aveva le risposte. Si stava avvicinando, avvolta da un mantello color cremisi.
L’aria era immota, stantia, sapeva di chiuso. A dispetto del paesaggio luminoso tutto sembrava finto. Forse erano finite davvero dentro un quadro, un’aggiunta non prevista e viva dentro quella che era solo una rappresentazione disegnata di qualcosa che non esisteva; stavano camminando su colori che un tempo erano appartenuti a una tavolozza e ora erano solo tempera stesa su un mondo alieno. Anche i movimenti erano rallentati. L’unica cosa viva, a parte loro due, era la donna, ormai vicinissima.
«Dico benvenuto-sai nel mio mondo e vi auguro giorni eterni e gradevoli notti.»
La donna era senza volto (meglio, pensò Carrie, se ne avesse avuto uno il solo guardarlo mi avrebbe impietrito). Non si capiva da dove uscisse la voce. Ripensò a uno spettacolo teatrale che vide da piccola, dove la voce di un ventriloquo proveniva da un pupazzo, ma qui non c’erano pupazzi e se di ventriloquia di trattava, troppe cose non quadravano. Come fa a vedere? Come fa a sentire? Non può esistere una creatura così.
«Dove siamo?» le chiese.
«Siete nell’intercapedine. Qui il tempo è fermo, le vostre vite sono in pausa. Le intercapedini sono fratture nelle linee spazio-temporali, anomalie.»
«Lui può entrare qui?»
«Non dovete preoccuparvi di Barlow, il suo potere ha bisogno della continuità per essere emanato. Qui c’è staticità, lui non può muoversi nelle terre senza tempo.»
«Dove dobbiamo andare? Guidaci ti prego.»
«Non potete restare qui, il vostro corpo non concepisce l’assenza di tempo e tenderà a deteriorarsi. L’aria non è buona, ma potete restare finché Jake e Johnny non adempiranno ai loro compiti, poi sarà la Torre a guidarvi verso casa. Andate a sedervi all’ombra di quell’albero, la volpe che riposa lì sotto sarà la vostra guida; in un posto dove il tempo non scorre, voi non potete far nulla di diverso da aspettare. Ma prima guardate dentro la sfera.»
E così facendo porse loro una piccola palla che subito si illuminò rivelando i volti di due persone ben note.
«Johnny! Jake!»
Loro non possono sentirvi e voi non potete sentire loro, ma vi è permesso guardarvi, prima del grande passo verso la realizzazione di ciò che è dovuto.»
Le tre sfere, nelle mani dei Summers si illuminarono e per pochi minuti la famiglia si ricongiunse.
Carrie non riuscì a trattenere le lacrime alla vista del marito e del figlio e quasi perse la sfera che le scivolò dalla mano per finire in quella di Holly. Fu così che i due bambini iniziarono a comunicare a modo loro, usando l’alfabeto muto.
Per quanto lento e faticoso, dopo pochi minuti di quel linguaggio ai Summers non sembrò strano parlarsi così.
Ritrovarsi, seppur a distanza di tempo e di spazio, fu magnifico e terribile al tempo stesso. Si guardarono negli occhi, in profondità, promettendosi amore eterno, qualunque cosa fosse successa.
Sarebbero rimasti così per sempre se avessero potuto, vicini nella lontananza, ma il loro destino era un altro.
«Ti amo», sillabò Johnny poggiando l’indice sulla sfera. «La mia vita per te.»
«Ti amo anche io, amore mio. Tutto lo stesso», rispose Carrie che in maniera simmetrica al marito mise il dito sulla piccola sfera. I due polpastrelli si toccarono, a distanza di mondi. Una piccola scossa vibrò sulla superficie del vetro e a Carrie sembrò di toccare le dita di Johnny, quelle dita che l’avevano sfiorata e carezzata tante volte. Pianse. Una lacrima cadde sulla sfera che, come in risposta, a quella liquida goccia piovuta dall’alto, si spense.
Le tre biglie tornarono a essere delle semplici palle di vetro. Solide al tatto, ma prive di riflessi.

Capitolo 17 – Conseguenze
«Hai paura Johnny?» chiese Mr Epping destandolo dalla sua ipnosi.
«Chi non ne avrebbe al posto mio?»
«Hai ragione, ne avevo anch’io nel 1963.»
Johnny decise di stare al gioco del suo interlocutore.
«Scusa se te lo chiedo, ma cosa ci facevi tu, esattamente, nel 1963?»
«Cercavo di salvare il Presidente.»
«JFK? E ci sei riuscito?»
«Più o meno. Ma il problema non è riuscire nel nostro intento, quanto essere pronti a sopportarne le conseguenze. Tu, per esempio. Se potessi tornare indietro nel tempo per fermare un pazzo, evitare una catastrofe o solo per dire a una persona una cosa che non le hai mai detto, dove vorresti andare?»
«Io? Facile. All’11 settembre 2001.»
«Ah, interessante. E cosa pensi di fare? Di salvare le Torri Gemelle? E come faresti dimmi, sono curioso. Andresti alla polizia? Oppure in aeroporto? Riusciresti a fermare quegli aerei? Pensi di riuscirci? Tu? Da solo, senza preparazione e senza aiuto? Ti prenderebbero per pazzo. Ti servirebbe tempo. Dovresti pianificare tutto, avresti bisogno di mesi, forse anni, per stabilire una base operativa ed elaborare un piano d’azione privo di falle, senza contare che nessuno ti crederebbe. Ma ammettiamo pure che riusciresti a bloccare il disastro, a diramare un allarme bomba per far evacuare i grattacieli, saresti pronto ad affrontarne le conseguenze?»
«Quali conseguenze scusa? L’aver salvato tremila persone?»
«E se tra quelle persone ne salvi una che doveva assolutamente morire? Diciamo che nel 2001 tu eviti l’attentato. Il mondo te ne sarà grato, ma tu non salirai agli onori della cronaca perché avrai lavorato nell’ombra e nessuno saprà che sei stato tu, il vero eroe dell’11 settembre. Ma a te non interessa la gloria, a te interessano le vite di quegli innocenti, giusto? Quindi te ne ritorni felice nel tuo tempo, ma qualcosa è cambiato e non lo sai, non riesci a percepirlo.
Nel 2017, approfittando della tua assenza per promuovere il tuo libro, un balordo, che nel 2001 era poco più di un ragazzo che faceva le consegne alle Twins Towers, penetra in casa tua per svaligiarla. Quello che il tizio non ha previsto è che tua moglie, che in genere ti accompagna nei tour promozionali, ha da poco scoperto di aspettare due gemelli e il dottore le ha consigliato di evitare strapazzi. Tu hai annullato la seconda parte del tour per starle vicino, ma le prime date sono ormai fissate e l’editor ti chiede di rispettare l’impegno preso. Il ladro non si aspetta la presenza in casa di Carrie e si muove tranquillo, senza badare al rumore che fa. Lei si sveglia e appena scopre l’intruso chiama la polizia, ma lui se ne accorge e le spara, ammazzandola sul colpo. Dal 2001 al 2017. Tremila vita al prezzo di una, anzi di tre, quella di Carrie e quelle di Jake e Holly che non nasceranno mai.
«Ora dimmi: torneresti ancora indietro al 2001?»
Johnny lo guardò sbigottito. Era un discorso assurdo, ma non poté esimersi dal dire: «No, certo che no.»
«Questa è la prova che siamo guidati in primis dal nostro interesse e poi da quello delle persone che amiamo. Pensiamo di essere altruisti, di voler salvare l’universo, ma siamo fondamentalmente egoisti.
«Le conseguenze Johnny, dovremmo sempre tener a mente le conseguenze delle nostre azioni, ma non temere, oggi non sarai chiamato a scegliere tra la vita dei tuoi cari e quella degli altri. Oggi la tua azione è unidirezionale, guidata dal ka, indirizzata allo scopo supremo che è l’equilibrio di ogni cosa. Qui c’è da salvare il mondo e dobbiamo mettere il mondo davanti a tutto, agli altri, a chi amiamo e a noi stessi, anche perché salvando il mondo salveremo tutti quelli che amiamo.
«Oggi non ci sono alternative, scenari preferibili che potrebbero però mutare la realtà in cui viviamo in qualcosa di peggio. Oggi c’è una pietra da far tornare al suo posto. Per riuscire in questo dovrai risolvere l’enigma di Atropo. Una volta superato il suo sbarramento, le tue paure si materializzeranno ai tuoi occhi e tu, tramite la “luccicanza”, dovrai affrontare i pericoli mentali e sconfiggerli.»
«Una volta posizionata la pietra, ammesso che io riesca, cosa succederà? Potrò tornare alla mia terra? Ci sarai tu qui ad aspettarmi o magari Roland con la sua cricca? E se la mia missione riesce, ma quella di Jake fallisce, o viceversa, che succede?»
«Non porti domande senza risposta. Stai guardando oltre, stai cercando una finestra sul futuro. La torre che regge l’universo si gioverà del ritrovato equilibrio e vedrai che ogni cosa tornerà al suo posto. Io, te, Jake, ognuno di noi avrà la sua giusta collocazione. E ora vai. Durante la nostra chiacchierata abbiamo percorso il sentiero che conduce alle grotte di Boo’ ya Moon.
Jake è già a Nerja, da Cloto, quindi è ora che tu faccia la conoscenza di Atropo. Buona fortuna Johnny.»

Capitolo 18 –
Carrie aveva ancora le dita poggiate sulla piccola sfera. Poteva quasi sentire il tocco di Johnny.
«Ti amo» ribadì tra le lacrime, anche se ora lui non era più visibile.
«Ti amo tanto Johnny, abbi cura di te.»
La donna senza volto riprese a parlare riprendendo da dove aveva finito, come se non ci fosse mai stata quell’interruzione.
«Mi raccomando, non oltrepassate il confine che divide le rose dal grano.»
Alzò un braccio a indicare l’albero, poi si voltò tornando da dove era venuta, posizionandosi immobile in cima alla collina, tornando a essere mera rappresentazione di se stessa.
Carrie si chiese se davvero lei e Holly erano entrate a far parte del quadro. Se qualcuno si fosse trovato ora a passare dal salotto di casa, cosa avrebbe visto? Loro erano diventate due macchie di colore in più sulla tela?
La dea senza volto aveva dato poche risposte, ma quelle dovevano bastare per ora. Erano salve ed era l’unica cosa che contava. Il fato, quello che forse in questa piegatura dell’universo chiamavano ka, avrebbe svelato loro cosa fare e quando farlo.
Si sedettero vicino alla volpe addormentata. Holly estrasse un pennarello dalla tasca e iniziò a disegnare qualcosa sulla corteccia dell’albero. Carrie invece chiuse gli occhi, ripensando a tutte le atrocità che erano loro capitate. Avrebbe più rivisto Johnny e Jake? I suoi uomini ce l’avrebbero fatta a posizionare i Talismani? Per anni aveva ironizzato sull’assurdità della maggior parte dei romanzi di Johnny e ora si trovava catapultata in una situazione che neppure lui era mai stato in grado di concepire. A queste cose pensava mentre il sonno venne a reclamare il recupero di quel riposo brutalmente interrotto dalla scimmia pazza. Afflosciò il corpo abbandonandosi all’estasi del torpore e così non vide Holly varcare il confine proibito.
«Ti piacciono i palloncini Holly? Ne ho di bellissimi, sono speciali e tutti colorati.»
Qualcuno, nascosto in fondo alle spighe, la stava chiamando facendo leva sulla sua curiosità. La piccola si era avvicinata alla striscia scura di terra che separava le rose dal campo dorato, quella che doveva essere la cornice dei due quadri. Aveva fatto capolino dall’altra parte e qui aveva sentito la voce che sponsorizzava i palloncini.
L’aria era immobile, ma si avvertivano “presenze”. Sentì dei gridolini in lontananza e pensò a dei bimbi nascosti che giocavano a nascondino. Per un attimo fu indecisa se unirsi a loro, ma le spighe erano troppo alte e aveva terrore di perdersi.
«Non avere paura, Holly.»
Di nuovo quella voce.
«Chi sei? Perché ti nascondi? Stai giocando a nascondino?»
«Qui tutti mi chiamano Penny e… sì, per rispondere alla tua domanda, sto giocando a nascondino. Vuoi sapere chi sto cercando? Sto cercando il tuo papà. Tu vuoi bene al tuo papà non è vero Holly? Lo vuoi cercare insieme a me? Vedi, lui è andato lontano, ma sente la tua mancanza e ha lasciato delle tracce perché vuole che tu e la mamma lo raggiungiate. Vuoi sapere come?»
«Non mi stai prendendo in giro vero? La mamma mi dice sempre che non devo parlare agli sconosciuti. E poi come fai a sapere come mi chiamo?»
«Ma noi non siamo sconosciuti. Ti ho appena detto il mio nome e il tuo me lo ha detto tuo papà, per questo so come ti chiami. Si è raccomandato tanto. Ha comprato i miei palloncini e ha detto che li avrebbe lasciati lungo la strada e che se ti fosse venuta voglia di andare a trovarlo non avresti dovuto far altro che seguirli. Vedi, i miei sono palloncini magici, galleggiano. Farai questo per lui una volta tornata a casa? Convincerai la mamma a seguire i palloncini?»
«Holly? Dove sei?»
Carrie si era svegliata in preda al panico, la figlia era sparita.
«Ora devo andare signor Penny, la mia mamma mi sta cercando.»
Si voltò e corse veloce verso il campo di rose. L’arida terra, su cui crescevano secche spighe di grano infestato, vibrò e la viscida creatura che si faceva chiamare Penny rientrò nella sua tana.

Capitolo 19 – I Talismani
L’interno delle grotte era ovattato. Le pareti inglobavano i suoni; i rumori dei passi si stemperavano andando a morire contro le rocce, come se al posto della pietra ci fossero strati di gommapiuma. Jake e Johnny erano disposti in modo simmetrico, seppur a mondi di distanza. Ciascuno di fronte a un basamento che recava vergata la stessa scritta: “In questi silenzi qualcosa potrebbe sorgere”.
Poi, improvvisa, una voce.
«Cos’è quella cosa che nulla è eppure ha un nome, a volte è lunga e a volta corta, che gioca insieme a noi quando giochiamo e si ferma con noi se noi ci fermiamo?»
La voce di Cloto giungeva dall’ombra. Le parole erano scandite perfettamente, il tono cadenzato. Jake era affascinato.
«Se mi spezzi non smetto di funzionare, se mi mangi ti prende il panico, se mi perdi, va a rischio che mi ritrovi con un anello al dito.»
La voce di Atropo era nitida, ma non sembrava umana, alle orecchie di Johnny suonava al tempo stesso dolce e metallica.
Nessuno dei due si concentrò sull’indovinello, alla ricerca della risposta, erano entrambi incuriositi da quella voce che per il momento non aveva un corpo. Strizzarono gli occhi per vedere meglio nell’oscurità, ma percepirono solo l’idea di una presenza, non la sua materialità.
«Cos’è quella cosa…»
«Se mi spezzi…»
Cloto e Atropo ricominciarono all’unisono a formulare gli indovinelli. Non c’era traccia di impazienza nella loro voce, davano l’impressione di poter restare lì, a formulare quei quesiti, per l’eternità.
Già è vero, siamo qui per l’indovinello, pensò Johnny al momento a corto di idee.
Anche Jake era in panne, nonostante a scuola fosse uno dei più bravi ai quiz proposti dalle maestre.
Dopo un altro minuto Cloto e Atropo riattaccarono con la loro nenia, ma questa volta si appalesarono. Erano molto piccoli, non sembravano dei guardiani, piuttosto dei nani. Portavano vesti azzurrognole, lunghe ai piedi. Il capo, calvo, era lucido, gli occhi inespressivi. I loro movimenti erano impercettibili e a ogni minuto che passava la loro voce sembrava quasi tornare indietro, come un nastro che si avvolge. Forse era solo un’impressione, dettata da quel perfetto scandire un ritornello sempre uguale a se stesso. Nulla nella recita si modificava. Tono, durata, cadenza, perfino le pause erano le stesse.
Jake fece mente locale alle cose che potevano essere lunghe e corte allo stesso tempo. Gli venne in mente il pongo, ma non era sicuro. Alle sue spalle il bimbolo si muoveva agitato, provava a richiamare la sua attenzione, ma non ci riusciva.
Johnny invece cercava di sminuzzare la frase, di analizzarne ogni parola. È una cosa che continua a funzionare anche da spezzata quindi quel verbo, “spezzare”, deve essere usato in senso figurato, deve essere un modo di dire. Se mi mangi, se mi perdi…in che senso? Non capisco.
Ora Oy si era allontanato posizionandosi in un punto della grotta più vicino all’entrata, lì dove filtrava un po’ di luce e faceva su e giù, su e giù.
Pensa a tua moglie Johnny, così gli aveva detto Mr. Epping. Lì dentro io non posso aiutarti, ma può farlo Carrietta. Cosa intendeva?
Il bimbolo ora era posizionato vicino al cono di luce proiettato dall’apertura della grotta e si muoveva veloce, come se stesse giocando con una pallina immaginaria. Jake lo vide e sorrise.
«Oy che fai? Giochi con la tua ombra? Mi stai deconcentrando, non riesco a pensa…»
S’interruppe. All’improvviso l’illuminazione. Giochi con la tua ombra. La tua ombra ti segue e se ti fermi si ferma con te.
«È ombra! Si, la risposta esatta è ombra!»
«Hai risposto ombra!» sentenziò la voce inespressiva di Cloto.
L’amore è una forza misteriosa, la più forte di tutte, segui sempre l’amore, combatti per amore e vinci per amore. Quando avrai dubbi, pensa a Carrie e a quello che lei ha donato a te. Così gli aveva detto Mr. Epping.
Cosa mi ha donato Carrie? Il suo amore? Perché l’indovinello parla di anello? Matrimonio? È una cosa che ha a che vedere con il giorno in cui ci siamo sposati? Cosa mi ha promesso quel giorno? Fedeltà? Perdono? Assistenza? Cosa? Cosa? Cristo non riesco, non… se mi spezzi, è lì la soluzione. Se mi spezzi, mi hai spezzato, cosa…
«Il cuore! Mi hai spezzato il cuore! Cuore è la risposta esatta! Il cuore umano!»
«Hai risposto cuore umano!»
«No, aspetta un attimo.» Non era più sicuro, voleva altro tempo per pensare, aveva detto cuore umano e se era solo cuore? Ma ormai Atropo aveva immagazzinato la frase e stava elaborando. Cosa sarebbe successo se quella non fosse stata la risposta giusta?
«La risposta è… esatta!» risposero all’unisono Cloto e Atropo.
«Siii! Ce l’abbiamo fatta Oy, è giusto, ce l’abbiamo fatta!»
Mentre Jake e Oy zompettavano felici, Johnny guardava impietrito il guardiano che sfavillava. Aveva paura, paura che ci fosse un trucco, che tutta quella messinscena fosse un inganno, paura delle “conseguenze” come le aveva chiamate Epping.
Al di là di quella sensazione di sfarfallio sembrò non accadere nulla per un po’. Poi Atropo e Cloto iniziarono a “sbiadire”. I loro corpi si fecero trasparenti e alla fine svanirono.
Era solo un ologramma pensò Johnny, non era reale.
«Dove è finito?» Si chiese Jake, «Questo è meglio di un numero di magia! Tu che dici?» chiese rivolgendosi al suo piccolo amico.
Poi li videro. I Talismani. Sembravano anelli. Sofisticati, ma puri. Riflettevano la luce inesistente di quel posto buio. Eppure brillavano. Erano freddi al tatto, ma si percepiva un calore interno difficilmente estinguibile, come di una fiamma eterna che bruciasse dentro.
Li rimirarono estasiati, perdendosi nella bellezza di riflessi d’incontaminata purezza. Poi sentirono il richiamo. Quelle pietre erano attratte, come calamita dal ferro, verso qualcosa.
Jake e Johnny seguirono la vibrazione e si trovarono al cospetto del pirin moh, quello che Scott aveva definito “cilindro” e che altro non era che il rivestimento del pozzo dei mondi, l’ini dove tutto aveva inizio e tutto aveva fine, dove gli elementi erano in equilibrio.
Sembrava un alloggiamento. C’era una scanalatura tra due binari d’energia che scorrevano verso l’alto. Ma non fecero in tempo a sistemarvi le pietre perché la grotta prese a trasformarsi, ad assumere i contorni di qualcos’altro. La roccia sibilò e mormorò sussurri di pazzia, qualcosa di simile a una litania folle: tu mi preoccupi Jake, mi preoccupi molto; datemi ciò che voglio e me ne andrò; dimagra; voglio parlarti da vicino Johnny, da molto vicino; Oz il gvande e tevvibile; il viaggio finisce qui, benvenuti a Terminopoli; vi ucciderò, non vi salverete; incunk; il mio nome è legione; kan toi, kan de lach.
I due Summers iniziarono ad avere paura e il loro terrore alimentò le forze oscure che rimestavano quel luogo al confine tra il bene e il male.
Forme nuove plasmarono il terreno intorno a loro in qualcosa di diverso, qualcosa che pescarono dentro alla loro mente. Tentacoli di pensiero sdrucciolevole scavarono nei ricordi, mettendo a nudo le loro paure, elevandole, estraendole dal resto dei pensieri confusi. Il furto delle loro angosce generò territori pericolosi. Così Jake si ritrovò dentro un labirinto, Johnny invece circondato da una ragnatela.
«Il minotauro» sussurrò Jake al bimbolo. La storia del toro dentro il labirinto lo aveva terrorizzato quando la maestra l’aveva raccontata in classe. Da allora non era più entrato in un labirinto, neppure quello fatto di piante al parco vicino casa, quello dove le siepi erano tagliate a forma di animali e al centro di tutto si stagliava il toro, un immenso arbusto fatto di foglie che sembrava muoversi al vento con le sue corna minacciose composte di rami intrecciati. Qualche buontempone sotto la targhetta che descriveva le piante aveva scritto “Vivva torro” e ora, in questo luogo oscuro e magico che era diventato fitto di cunicoli, il rumore di zoccoli enormi che rimbombavano sulle pareti, fecero pensare a Jake a quella stupida scritta. Il torro sta venendo a prendermi, è la fine.
«Ragni. Io odio i ragni» disse Johnny ripensando a quello che solo due giorni prima era sbucato dal lavandino di casa. Che ho creduto di veder sbucare dal lavandino di casa, si corresse Johnny. Non è reale, tutto questo non è reale, sono solo le mie paure. Ma quando vide l’essere, le gambe si trasformarono in molle gelatina e lui cadde a terra. Era un aracnide enorme, grosso come un elefante, con zampe pelose e occhi ovunque, persino sulla schiena. Dalla bocca colava denso liquido bianchiccio e attorno a sé aveva ragnatele come bava di lumaca, piene di scheletri appiccicati.
Quando il ragno e il toro videro i due esseri umani, proruppero in un lamento di morte, tutto vacillò e i Summers furono sul punto di perdere la ragione perché quelli non erano un toro e un ragno qualunque, erano i figli di Satana usciti dalle fiamme.
Il toro smosse la terra con una zampa enorme. Poi sbuffò aria dal naso e caricò. Allo stesso tempo il ragno esplose una gabbia di ragnatele che fluttuò nell’aria sopra la testa di Johnny, pronta a imprigionarlo.
Fu allora che successe. La “luccicanza” si attivò, improvvisa, senza controllo cosciente, una vibrazione che permise a padre e figlio di scendere nelle profondità mentali dei due demoni. Luce e buio si fusero, fuori del tempo, i demoni si “agganciarono” agli esseri umani e il rito di Chud ebbe inizio.

Capitolo 20 – Il rito di Chud
Jake e Johnny nel vuoto.
“Chi siete? Perché venite a me? Io sono eterno, io sono il divoratore di mondi.”
Lanciati, verso il buio titanico del senza fondo, i Summers vennero scagliati e videro budelli neri grondanti morte, incroci, spirali, torri. Scivolarono lungo lastre levigate.
“Basta smettila!”
“Fa male vero? Il piano inclinato dell’eternità è scivoloso e nero, nero come i miei occhi.”
La loro luccicanza vacillò come fiamma al vento, poi si riebbe, crescendo di un’intensità sconosciuta che disorientò il divoratore di mondi.
Una forma, un colore, un odore, un sentimento, un’energia che cozza contro un’energia uguale e contraria.
“Come osate?”
La mente oltre l’altro, l’altro oltre il vuoto, accelerazione, confusione, un’entità di luce e poi pausa, respiro.
Rabbia e risate. Sdegno e risentimento, ira, allo stato puro.
I corpi di Jake e di Johnny si afflosciarono, ebbero come un ripensamento. Fuoriuscirono dall’alloggiamento dentro il quale stavano combattendo la loro battaglia mentale con i demoni poi, all’improvviso…
Jake e Johnny nel vuoto, ancora.
Oltrepassare il limite, superare la recettività, issarsi a un livello più ampio di consapevolezza comunicativa.
“Basta non resisto”.
“Imprudenti, non dovevate”.
C’è solo Chud, il rito. I denti nella lingua, contatto carnale, aggancio.
Non perdere la materialità, costrizione, impedirgli il passaggio all’immaterialità, bloccarlo in una forma.
“Muori maledetto!”
“Non potete finirmi. Io vivo al di là dell’oltre! Io sono l’estraneo, io sono l’informe.”
Slittare, scivolare, il buio che cerca di spegnere la luce, la luccicanza cerca fessure, si fa strada, apre varchi, morde con i denti della mente, la testa scava nei pensieri.
“Tienilo Jake, tienilo fermo, puoi sentirmi?”
“Ti sento padre, aiutami, da solo non riesco.”
“Spingi Jake, spingi e aggrappati, feriscilo senza mollarlo.”
Chud, resisti; Chud, credi!
Un grido, un risucchio, un tuffo nel fango, i demoni si ritraggono furenti, ma la presa resta salda i denti fanno sanguinare la lingua.
Vento, boato, voce distorta, ragno e toro, isteria, aculei, veleno, vomito.
“Il volto dei tuoi avi, spara con il cuore Johnny.”
Ronzio, incessante, continuo, fastidioso. Api dentro la testa. Ronzio di caduta, rumore di resa, la luce apre squarci, ragno e toro sanguinano dei coni luminosi.
Un altro morso. Polpa rosa smaciullata tra i denti.
Il pozzo e la Torre, profondità e altezza, il ka, la non-luce dei demoni che si offusca.
Piccoli puntini.
“Aiuto, scivolo.”
“Posso darvi vita, lasciatemi andare e vi regalerò eternità. Toccami Jake. Toccami Johnny.”
“No!”
Morsero più forte e il dolore del demone si propagò nella loro mente, come acqua gelida che fuoriesce da una bottiglia rotta allagando il pavimento.
Di nuovo nel nero, nel nero del demone. Un ultimo sforzo. Lacerazione, convulsioni.
Fetido calore ustionante e poi… la resa.
“Vieni a me.”
“Cosa? Chi sei tu?”
“Noi siamo il tutto.”
“E noi chi siamo?”
“Voi siete parte.”
“Non capiamo.”
“Non ci può essere comprensione, ci deve essere accettazione. Abbandonate la luccicanza e lasciatela fluire dentro i talismani.”
Jake e Johnny, di nuovo nella materialità dei loro corpi umani, svuotarono la luccicanza dentro le pietre e poi, sfiniti, posizionarono i Talismani nei loro alloggiamenti ricomponendo la frattura, allineando spazio e tempo, prima e dopo, dove e quando. Ragno e toro erano evaporati, i Talismani ai loro posti.
Da qualche parte, il ka-tet di Roland vibrò e colse il cambiamento. Allo stesso modo i Coffee si guardarono e percepirono la realizzazione.
Il rito di Chud si era compiuto e la Torre universo era salva. Jake e Johnny caddero a terra privi di sensi.

Capitolo 21 – Fine e inizio
«Mio Dio, Holly! Ci era stato vietato andare dall’altra parte! Stai bene? Ti è successo qualcosa?»
«Tutto bene mamma, non preoccuparti.»
Quasi in risposta a quell’affermazione, dalla cima della Torre partì un raggio di luce che cambiò la luminosità di un paesaggio che dal loro arrivo non era mutata affatto. Il sole finto era rimasto fermo immobile su di un cielo di cartone. I loro istinti non si erano fatti sentire. A parte il sonno a Carrie il corpo non aveva rimandato indietro nessuna sensazione durante tutta la permanenza in questo “non posto”. La sua stessa pelle le sembrava finta al tatto. Cosa stiamo diventando? Parti noi stesse di un affresco?
Per fortuna la Torre, che ora sembrava un faro con quel raggio intenso, aveva cambiato qualcosa nella staticità di quella situazione. Seguendo la luce, Carrie e Holly si accorsero che il raggio terminava sul muso della volpe addormentata. Avvertendo il tepore sul naso, l’animale si destò e mosse alcuni passi in direzione dell’albero fermandosi di fronte a uno squarcio sul tronco.
Nessun filo d’erba o foglia era rimasta attaccata ai pantaloni di Carrie e Holly, tutto era impresso su tela, in modo definitivo. La madre prese per mano la figlia e insieme si diressero al varco, timorose che il buco potesse chiudersi da un momento all’altro.
La donna con il mantello era solo un punto immobile sulla cima della collina.
Prima di alzare il piede ed entrare nel buco, Carrie guardò verso est, lì dove era finita poco prima Holly. Le sembrò di udire grida di gioia e risa, come di bimbi al Luna Park, ma dietro quel vociare festoso le parve di percepire un sottofondo di morte, un sibilare continuo come di serpente, o di pentola a pressione. Distolse lo sguardo e si concentrò sul varco. Quando entrambi i loro corpi furono passati, un rumore di risucchio sancì la chiusura del buco.
Holly si stiracchiò, destandosi pian piano da un lungo sonno. Si sentiva la fronte schiacciata. La testa premeva contro qualcosa di solido e liscio. Un forte torcicollo le rimandò fitte dolorose fino alle spalle. La sua mano destra stringeva la sinistra di Carrie. Voleva aprire gli occhi, ma qualcosa le diceva di non farlo, li sentiva incrostati, come bloccati da una forte congiuntivite.
Si fece forza e li aprì. Vide solo buio. Il nero della notte più profonda. Poi si rese conto che aveva la testa poggiata sul finestrino di un aereo, un aereo che la stava portando in Spagna. Le pupille, abituatesi a quell’oscurità, intravidero dei bagliori. Sembravano stelle cadenti che invece di esaurirsi lasciavano una traccia indelebile della loro scia.
Guardò meglio e la sensazione che ebbe fu quella di tanti piccoli strappi. Era come se qualcosa stesse staccando striscioline di materia dal cielo.
Un’inquietante sensazione di disagio le percorse con un brivido la spina dorsale. Si girò e vide che tutta la sua famiglia era al suo posto, sprofondata nel sonno. Doveva essersi addormentata poco dopo il decollo. Si ricordava della litigata con Jake per il posto vicino al finestrino e poi… il vuoto.
Le sembrava di aver dormito per giorni, non per poche ore. Aveva sognato un sogno infinito di cui ricordava solo pochi confusi brandelli. Animali soprattutto. Un cane, una volpe, tanti pipistrelli; o erano topi? Suo papà e Jake dovevano fare qualcosa di importante e di pericoloso, ma ci riuscivano, perché avevano i poteri magici.
Sul suo tavolino c’era un foglio. Aveva disegnato un cerchio con dentro due lettere che sembravano una K e una A. Non ricordava di averlo fatto, ma quell’immagine le riportò alla mente un discorso astruso che la maestra aveva rivolto alla classe prima delle vacanze: «Vedete ragazzi, la vita è un cerchio e si torna sempre al punto di partenza. Dalla nascita alla morte ci sembra di percorrere una linea retta verso una meta, ma in realtà compiamo un percorso circolare. Ci alziamo la mattina e andiamo a dormire la sera per risvegliarci poi il giorno dopo e ricominciare il giro. Il sole sorge a est e tramonta a ovest e così sempre sarà. I nostri giorni sono tanti piccoli cerci all’interno del cerchio più grande e in questo percorso circolare non conta l’arrivo, ma il percorso. Tutto ciò che apprenderemo, tutto quello che saremo capaci di capire durante il viaggio, ci servirà quando, arrivati alla fine, dovremo ricominciare tutto dall’inizio. Voi siete spugne; mi raccomando, assorbite gli insegnamenti e fate tesoro dell’esperienza, vi servirà.»
Aveva capito poco o nulla di quel discorso che ora però gli sembrava perfettamente rappresentato da quel semplice disegno.
Mi scappa la pipì.
L’impellente bisogno di urinare l’aveva sottratta ai suoi pensieri. Scavalcò le gambe della mamma e per un attimo la sua attenzione fu catturata dal disegno poggiato sul tavolino di Jake. C’era scritto: “I Langolieri stanno arrivando” e tutt’intorno erano raffigurate delle piccole palle di pelo munite di denti aguzzi.
Ci mancavano solo questi Lango-cosi. Saranno sicuramente orribili personaggi di qualche cartone animato che questo scemo chiederà a Babbo Natale.
Ancora il richiamo della pipì.
Avanzò oltre Jake, ma quando fu la volta di superare le gambe allungate del papà, inciampò, finendo distesa sul corridoio, con le braccia protese sul sedile di fronte.
«Mi scusi» disse al passeggero invisibile che avrebbe dovuto occupare il posto su cui era quasi rotolata.
C’era qualcosa che non andava. Quei sedili erano deserti. Spostò lo sguardo verso la coda dell’aereo. Era mezzo vuoto. Le poche persone presenti stavano dormendo, delle altre non c’era più traccia. Il carrello delle bevande giaceva in fondo. Nessuna hostess lo stava spingendo perché le hostess erano sparite.
Volse gli occhi dalla parte opposta. Tre palloncini colorati galleggiavano a mezz’aria lungo il corridoio. L’ultimo sostava immobile di fronte alla cabina di pilotaggio che si apriva e si chiudeva come sospinta da un’improbabile corrente d’aria.
«I palloncini di Penny!» esclamò senza neppure ricordare bene chi o cosa fosse questo Penny.
Si mosse in direzione del bagno, sfiorando il filo sottile dei palloncini, ma la sua attenzione fu catturata dalla cabina. Lo stimolo a urinare era ormai incontenibile, ma la curiosità di affacciarsi all’interno del posto di comando era ancora più forte.
Poggiò le mani sulla porta socchiusa. Era ghiacciata. Una piccola goccia di pipì, richiamata da quel gelido contatto, sfuggì al suo controllo andando a macchiare le mutandine.
Spalancò la porta. La cabina era deserta, eccetto che per un solitario palloncino rosso che sembrava prenderla in giro. Sopra c’era scritto: “Benvenuti a Terminopoli”.
Anche nell’ingenuità dei suoi sei anni capiva perfettamente che un aereo senza pilota era un aereo che non poteva atterrare.
Jake e papà ci salveranno, loro hanno i poteri. Jake e papà guideranno l’aereo, loro sono magici.
Come un mantra si ripeteva questo pensiero, per convincersi che andava tutto bene, tutto era ancora possibile.
Ma poi guardò oltre, guardò fuori.
Quello che vide liberò definitivamente il contenuto della sua vescica, come diga che cede all’acqua, e aprì le porte agli orrori celati nella sua mente.
I Langolieri stavano divorando la notte, tracciando una rotta invisibile verso l’ignoto.
Fu allora che Holly cominciò a gridare.
FINE (?)