La spiaggetta di Onno è una striscia di terra, l’ultimo punto fermo dove poggiare i piedi. Poi c’è solo acqua. Un chilometro e mezzo di fredda acqua libera. Laggiù in fondo, l’arrivo di Mandello sembra un miraggio.
Indosso una muta, una piccola boa di segnalazione, una cuffietta con il numero 166 e gli occhialini. Siamo tutti ammassati in questo micro spazio come tanti pesci catturati in una rete, ad aspettare che vengano rimosse le boe e ci venga dato il segnale della partenza.
All’improvviso lo starter fa il conto alla rovescia: 3,2,1 via.
Pochi secondi prima c’era empatia tra noi. Parlavamo e scherzavamo, forse per esorcizzare la paura e distrarre i pensieri. Ora, pur essendo in mezzo a centinaia di persone, è come se fossi da solo. Siamo io e l’acqua e i pensieri di prima confluiscono in uno solo. L’acqua fa sparire i rumori, è una sensazione strana. Quando tiro fuori la testa per respirare vedo e sento il gorgoglio e gli spruzzi alzati da tutti i nuotatori; quando mi immergo c’è solo il suono di bolle. A ritmo alternato, rumore, silenzio, rumore, silenzio.
Percepisco decine di corpi attorno a me: si toccano mani, gambe e braccia, qualcuno mi supera velocemente, qualcuno sembra quasi che mi passi sopra. La sensazione è onirica, sembra un sogno in cui tutti sono più veloci di me e io, pur nuotando, rimango fermo. L’acqua appare di un verde scuro e impedisce la vista del fondale che potrebbe trovarsi a uno come a mille metri sotto di me. In realtà il punto più profondo dista un’ottantina di metri, ma questo poco importa perché per affondare ne bastano tre.
L’acqua diventa nera, i corpi in movimento attorno a me (che mi ricordano la scena del Titanic nella quale centinaia di persone nuotano senza senso nelle gelide acque dell’Atlantico) e la fatica delle prime impulsive bracciate mi portano in affanno. Sono in acque libere, ma mi sento imprigionato dentro la muta e in mezzo a tutti questi corpi. Ci sono persone che nuotano alla mia destra, alla mia sinistra, davanti e dietro e questa situazione mi soffoca perché io tollero poco gli spazi stretti, soffro di claustrofobia.
Mi avevano detto che qualcuno si fa prendere dal panico e si arrende subito, andando in affanno e chiedendo soccorso alle barche che seguono i nuotatori per andare a recuperare chi è in difficoltà.
I pensieri si affollano nella mia mente, pensieri di profondità e di costrizione e sento il cuore accelerare, il respiro mancare. Avrò forse nuotato per cento metri e mi sembra di essere già troppo stanco.
No, non posso permettermi il rischio di andare nel panico. Pensieri positivi, ho bisogno di pensieri positivi e di un aiuto dal mio stile preferito, quello che mi viene più naturale e che mi fa ricordare che l’acqua è sempre stata il mio elemento e il nuoto il mio sport: la “rana”.
Le gambe si distendono e si rilassano, il respiro si fa meno affannoso, riesco a capire qual è la direzione da tenere. Dentro il lago c’è un fiume in movimento, è il flusso di persone che è partito da una sponda e, come un affluente, cerca un approdo, che nel nostro caso è la sponda opposta. Mi accorgo di essere arrivato alla prima boa segnaletica. Dentro l’acqua rilasso il mio respiro. Fuori tutta l’aria, poi di nuovo su con la testa a prendere ossigeno per il corpo. La “rana” è ritmo, è musica, è totale coordinazione di braccia e gambe; sono scarso nello stile libero, ma sono un bravo ranista e questo mi dà fiducia. Peccato che si vada molto lentamente e allora via, posso riprendere lo “stile”, con la consapevolezza però che la “rana” è sempre lì a mia disposizione e che il mio obiettivo è arrivare, non fare un buon tempo e che volendo posso farla anche tutta a “rana”.
Ora va meglio, sento il freddo sui piedi e capisco che forse devo battere di più le gambe. Respiro ogni tre bracciate. Il tempo lo decido io. Uno, due e tre, respiro a destra e poi uno, due e tre, respiro a sinistra. Ora attorno a me ci sono sempre persone, ma la densità umana è diminuita e finalmente si nuota senza sbattere.
Penso che il primo terzo è passato e che dovrei trovarmi nella parte centrale del lago. Pensiero da rimuovere immediatamente e allora stavolta è la musica ad aiutarmi. Dentro la mia testa parte “Bohemian Rapsody” e me la canto tutta, dalla prima all’ultima nota. Questo mi aiuta a liberare la testa dai pensieri e mi dà ritmo. La canzone mi aiuta anche perché dura sei minuti e in sei minuti faccio circa trecento metri, il che vuol dire portarsi un bel pezzo avanti. Quando la canzone mentale finisce tiro su la testa e mi accorgo che l’arco dell’arrivo è molto più vicino di quanto potessi immaginare e soprattutto sono riuscito ad andare dritto.
È un buon momento perché il fiato è stato spezzato e il mio corpo ora risponde bene. Sento di avere le energie per arrivare fino alla fine. Partono nella mia testa i cori da stadio e sono loro adesso a darmi il ritmo, mentre penso alle mie caratteristiche da fondista; è sempre stato così, anche quando giocavo a calcetto emergevo dopo più di un’ora perché tutti a quel punto sentivano la stanchezza, ma io avevo ancora fiato da vendere e le gambe rispondevano. È così anche oggi: le gambe vanno e le braccia pure, ormai vanno da sole e mi accorgo che qualcuno adesso lo sto superando anche io.
Passano pochi minuti ed è tempo di qualche altra bracciata a “rana”. Stavolta l’arrivo lo vedo chiaramente, è vicinissimo, mancheranno duecento metri. Scorgo la gente ammassata in spiaggia che assiste. Li ci saranno anche mia moglie e i miei figli e non vedo l’ora di riabbracciarli, uscendo dall’acqua.
Raddrizzo la nuotata per centrare il punto di arrivo e m’incanalo in una specie di imbuto umano perché tutti stringono verso l’arco di arrivo.
Poi, ecco la sorpresa più bella, all’improvviso il buio del lago diventa più luminoso e ai miei occhi increduli appare il fondale di ciottoli e sabbia. È proprio sotto di me, abbasso i piedi, che toccano la terra, e mi accorgo di essere arrivato. Emergo dall’acqua sbalordito per essere già qui, percorro due metri a piedi e sento il bip del tempo che mi viene preso.
Ce l’ho fatta.
A quarantaquattro anni, ho ancora la forza e la voglia di attraversare un lago da una sponda all’altra, come quando a vent’anni attraversavo il mare che divideva Ventotene da Santo Stefano.
Mi sento vivo e mi sento felice di aver fatto questa follia.
Poi ritrovo l’abbraccio della mia famiglia e vedo i compagni di nuotata con i quali confronto emozioni a caldo e prime impressioni.
Scoprirò in seguito di essere arrivato a metà del gruppo dei nuotatori e poco oltre il primo terzo della categoria dei non tesserati. Ho impiegato trentadue minuti, un ottimo tempo che va a migliorare il mio record di trentacinque minuti fatto però in piscina.
La mia prima Onno-Mandello.
Simone Pensieroso