Il libro, ambientato negli anni ’30 e ‘40, affronta un tema non facile, quello della pazzia, in modo chiaro e pulito, tanto che l’opera è stata segnalata per il premio Campiello.
Nelle campagne trevigiane la piccola Alice subisce un destino crudele: la madre l’abbandona nel manicomio di Treviso in quanto sospetta malata di “pellagra”.
In realtà Alice non è malata, men che mai pazza, è solo uno scarto della famiglia, il rifiuto di una mamma degenere.
Ma dentro quelle mura un paziente sano può ammalarsi, specie se ha solo 10 anni. La follia delle internate gratta all’interno della mente di Alice come dite sbilenche scrostano l’intonaco dal muro, svelando la macchia d’umidità che si nasconde sotto, scoprendo gli angoli bui, le zone oscure del nostro cervello.
Alice sembrerebbe trovare conforto nell’algida Katrin, psichiatra del manicomio e, soprattutto, nel gigante buono, Antonio, del quale s’innamora, restandone incinta poco più che adolescente.
Seguiamo il destino della protagonista nell’arco temporale di un decennio, affossati dalla sua impotenza di fronte alla malata burocrazia di un luogo-non luogo, dove vengono rinchiusi gli scarti della società.
Fuori imperversa la guerra, i fascisti cominciano la loro caccia agli ebrei, il nuovo direttore dell’istituto scopre segreti inconfessabili nascosti in quelle quattro mura e noi affoghiamo, privi di respiro, lacerati dalle terribili vicende di Alice.
Un testo che non parla solo di follia, ma anche di maternità, di quel potere di attrazione tra madre e figlia che avvicina come calamita.
Libro denso, importante, duro, spietato che mi ha emozionato dalla prima all’ultima pagina.
Sin qui, una delle migliori letture dell’anno.