Il dolore a volte è vuoto. Ti stordisce, privandoti. E ti conferisce l’aspetto asettico di una stanza spoglia. Altre volte invece il dolore è pieno, ti riempie, dandoti l’impressione di farti scoppiare.
In questo libro il dolore è pieno e “il silenzio sciaborda”. Come una spugna che assorbe l’acqua, giri le pagine e strizzi fuori le parole. Le sillabe gocciolano in fondo al tuo cuore, creando pozzi concentrici di sofferenza.
L’autore usa uno stile forbito, quasi eccessivo a volte quando si arrampica su termini (partenogenesi arrenotica, scotomi, entalpia) che non puoi esimerti dal cercare sul vocabolario. Vibra tra le righe il substrato di una cultura classica (l’antica Grecia e la filosofia) mescolata a una base scientifica (la chimica) in un accostamento ossimorico che sembrerebbe impossibile, come se l’impalcatura non potesse reggersi su basi così distanti tra loro. Eppure la costruzione non crolla, sono solo le tue certezze a sgretolarsi, mentre il testo si svela comprensibile, perché comprensibile, al di là della singola parola, è la forza emotiva che ne fuoriesce.
Salvati cita Bourroughts, Pascoli, Mary Shelley, Omero, Montale, Euripide, Lovecraft e fa professione di modestia (“volevo nascere poesia, ma sono una prosa a pezzi”).
Basta leggere il primo pezzo per capire di che pasta è fatta la sua armatura e di quanto tempo ha impiegato per “costruirsi un’anima dentro la corazza”. Il dolore è “un treno che scappa” e nega un saluto, il dolore è un’anima d’asfalto, è “cancrena, metastasi psichica, ologramma di terrore, è assuefarsi alla flagellazione” è non riuscire a capire come fare per “incollare i cocci dei sogni”, è “buio opaco che lascia una scia”.
Un libro importante che tocca le corde dei sentimenti sollecitandone armonie nascoste.
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Un autore che sa, che spinge forte sull’acceleratore del pathos, vagando alla ricerca del suo io, scoprendo riflessi di sé non dentro uno specchio, ma nell’intonaco sporco, perché l’animo umano è fatto di marasma, non di candore, perché il distacco emotivo genera mostri, perché “si può creare senza essere padri, ma non si può nascere senza essere figli e non si può crescere senza essere bimbi”. Un requiem alle emozioni perse lo definisce lui, un benvenuto a quelle ritrovate, vorrei aggiungere io.
Un titolo ostico se non sai di filosofia, pagine che sono un ponte (di afflizione) tra l’immortalità dell’anima e la capacità di meravigliarsi delle piccole cose, proprie dei bimbi piccoli. Ma il suo fanciullino si stupisce al contrario, cogliendo il marciume di vicoli sporchi, i riflessi di orologi rotti, la desolazione di cuori deprivati, ridotti a scheletri.
Un libro impossibile da recensire perché vorresti citarne ogni frase, tanto ogni singola sillaba è pregna di sostanza.
Più si procede con la lettura più le poesie diventano quasi canzoni, rap all’umanità che come un uroboro si morde la coda rinnegando il suo progresso.
Verso la fine Francesco decide di scoprirsi, di abbandonare per un attimo l’armatura che ha usato come vestito per i suoi versi e spiegarci perché il suo torace gronda catrame, perché la sua anima è arrugginita (“se prego prende il tetano il Signore”), dando un appiglio autobiografico al suo dolore. E mentre il buio si posa sopra il ronzio e l’interferenza delle persone, resta la consapevolezza che “la morte si sconta vivendo”.
Ma non c’è solo dolore, c’è anche amore, incondizionato, verso chi “fa essere”, verso un’anima che ci fa scoprire il potere di un sentimento tirandolo fuori dalla nostra frustrazione.
Nascoste tra le righe ci sono perle di infinita tenerezza (“ho perso le impronte a furia di solletico”), di gesti ripetuti verso l’oggetto del nostro amore e della nostra disperazione. Perché per chi riesce a vederli, in mezzo alla poltiglia, a volte, germogliano fiori.