Monte Alban (la “Montagna bianca”) è una città zapoteca, un tempo governata dai sacerdoti, un centro politico e cerimoniale fondato dagli Olmechi nell’800 a.C., legato al culto dei morti e delle divinità d’oltretomba, un grosso osservatorio astronomico che domina dall’alto le vallate sottostanti. Le piattaforme nord e sud si guardano da un lato all’altro del sito, tutto raccolto su una grande spianata erbosa, la Gran Plaza. È mattino presto quindi siamo i primi visitatori che calpestano il terreno bagnato e ammirano le antiche costruzioni, una delle quali punta dritta come una freccia verso lo Yucatan. Sembrano astronavi ferme, in attesa di un ordine da un mondo lontano, che si rispecchiano nelle pozze d’acqua, duplicando così la loro immagine in un effetto cromatico molto suggestivo. Il silenzio avvolge ogni cosa, la sacralità del luogo risuona di echi lontani, si avverte immobilità. Salgo i gradoni e resto affascinato a guardare verso l’oltre, cercando di immaginare cosa ci potesse essere tanti anni fa in questi luoghi, quali rumori, quali riti di devozione. È un peccato non poter restare ancora un po’, a volte anche un luogo può accendere in te sensazioni al pari di una persona e questo sembra un posto che ha trovato la sua pace.

Il mercato, il più grande del Centro America, dove confluiscono venditori di tutto il Guatemala. Visto dall’alto è una distesa sterminata di tendoni bianchi, che coprono un mondo. Visto da dentro è un dedalo di colori, il labirinto del commercio. Giallo, verde, rosso e blu. È come guardare dentro la tavolozza di un pittore, una tavolozza in movimento, dove acquerelli e tempere si confondono, si mischiano e creano nuovi colori; stoffe di lana grezza, tovaglie, centrini, amache, ma anche maschere e frutta, tutto è vorticosamente colorato. Volti rugosi, volti scavati, volti di donne piccole e minute, volti anziani di donne senza età, di donne che sulle spalle portano bimbi di un anno, di donne che sembrano quasi indiane o sud americane, che sembrano appartenere a tribù distanti. Volti di uomini che chiamano, uomini che barattano e contrattano, che mostrano la merce e chiedono il tuo prezzo. Volti di bambini che tendono una mano, bambini che chiedono una moneta, bambini che vendono braccialetti e regalano sorrisi all’obiettivo. Volti di gente, che vive e sopravvive, che ti guarda e ti assorbe, ti rimprovera e ti desidera. Volti di un’umanità diversa, sofferta e vitale, di una civiltà orgogliosa, di un popolo con le sue regole e le sue tradizioni.
Galli e maiali, pollame nelle ceste. Versi di animali venduti e trascinati al guinzaglio come fossero cani, versi di bestie gettate come merce una sopra l’altra, stipate, come se non sentissero il dolore e non provassero la paura. E poi gli autobus, i famosi “Chicken bus”, colorati, festosi, pieni, caldi, assurdi. Gli adesivi sul parabrezza non sono quelli dei nostri camionisti, non celebrano le donne, ma Dio, nessun poster di playboy, ma solo
crocifissi e rosari, nessun gagliardetto calcistico, ma slogan di fede. Un mondo a parte, un mondo differente dove compriamo di tutto, t-shirt e magliette da calcio, braccialetti e collane, orecchini e monili, drappi e teli, simboli e feticci. Contrattiamo al ribasso per quelli che al cambio equivarrebbero a pochi centesimi di euro, discutiamo, tocchiamo la merce come esperti mercanti e ci lasciamo incantare dal colore e dal rumore.