MONUMENT VALLEY
L’odore della terra, il cielo stellato, l’aria rinfrescata dalla pioggia delle ore precedenti… Sono da poco passate le cinque di mattina e la maggior parte dei miei compagni dorme. Io, Daniele, Max, Filippo, Chicca e Claudia Varese decidiamo di anticipare il sole e vederlo sorgere attraverso le rocce della Monument Valley. Max imbocca la strada verso Moab, direzione opposta al parco, per fortuna che il nostro senso di orientamento è un po’ più attivo del suo e lo invitiamo a un’inversione di marcia, altrimenti avremmo visto una ben più misera alba.
Silenzio, qualche biscotto sgranocchiato nell’abitacolo, occhi assonnati e una strada dritta che sembra bucare la Monument; dovrò ricordarmi di questo punto al ritorno per scattare qualche foto. Al gabbiotto che segna l’ingresso al parco c’è una ragazza Navajo che deve essersi svegliata ancor prima di noi. Un giapponese prepara la sua macchina fotografica con cura, altrettanto fanno due italiani; sono pochi i folli che hanno deciso di fare la levataccia per assistere allo spettacolo. Fa freddo, il cielo sembra rischiararsi, monoliti di granito e arenaria si stagliano possenti di fronte a noi, rimandano voci di antichi guerrieri, riti di un altro tempo e un’altra vita.
Il sole… un puntino di spillo, poi improvvisamente più grande, sorge, quasi lo vedi salire a occhio nudo e poi la luce, bagliori e riflessi, la mutevolezza dei colori che si plasmano e si raddensano. Un miracolo che si ripete ogni giorno e che ogni giorno emoziona e riconcilia con la vita.
Riprendo contatto con la mia essenza prima di iniziare il giro del parco su una strada sterrata sulla quale saremo praticamente solo noi. Smettiamo le felpe, ormai la temperatura si fa mite. Percorriamo sentieri silenziosi, fotografando l’Elephant Butte e le Tre sorelle, il Camel Butte e il Totem Pole. Alcuni indiani allestiscono banchetti con i loro acchiappasogni, i famosi Dreamcatchers che catturano gli incubi bruciandoli alla luce del mattino e trattengono al loro interno i sogni buoni facendoli poi evaporare verso il Grande Spirito. Altri Navajo gonfiano una mongolfiera, verosimilmente a uso e consumo dei turisti che arriveranno. Il silenzio del posto ci accompagna fino alla fine del giro.

LAS VEGAS
Ed eccola la città delirante. Non ancora illuminata a giorno, ma già in pieno fermento con le sue insane attrazioni da luna park in cima alla Stratosphere Tower. Appare improvvisa in mezzo al deserto, come un’oasi pacchiana, una tentazione per il viaggiatore stanco, con la sua promessa di soldi facili. La musica di Alan Parsons, da me scientificamente scelta per l’ingresso in città, sottolinea l’importanza del momento. I nostri occhi sono bombardati dalla maestosità degli edifici che riproducono i monumenti più famosi del pianeta terra. Il Motel 6 sembrerebbe piuttosto vicino alla celebre via principale, là dove si ergono tutti gli alberghi più noti della città. Una doccia e poi si parte. Sono carico, voglioso di divertirmi, di far baldoria fino all’alba. Ma Las Vegas non è il luogo che ti aspetti. Las Vegas è una glassa di zucchero che ricopre una città triste, è il miraggio di sogni facili, ma la patria di quelli infranti, è la finzione di trovarti a Venezia e Parigi, quando Venezia e Parigi sono lontanissime e allora anche un giro in gondola, qui, che senso avrebbe? Nessun romanticismo, solo finzione. E se non sei pronto Las Vegas ti sfinisce. La strip sembra corta, ogni casinò vicino e invece è così distante che per raggiungerlo occorrono chilometri e chilometri a piedi. E soprattutto Las Vegas non si può affrontare in sedici.
Solo per decidere dove andare a mangiare perdiamo un fottio di tempo. Vaghiamo prima al MGM, dove due leoni in una gabbia trasparente fanno la felicità di turisti bramosi di foto, poi al New York, dove un’imponente montagna russa circumnaviga la skyline di Manhattan, incorniciando una fedele riproduzione dell’Empire State Building. Vorremmo fare subito le montagne russe, ma le fontane del Bellagio chiamano e la paura di non poterle più vedere dopo una certa ora ci fa perdere l’appuntamento con l’ottovolante che non tornerà più. Ammiriamo le fontane danzanti, sinuose al ritmo di una musica sublime. Siamo già dimezzati e ci dividiamo ulteriormente, chi alla ricerca di un Mc Donald’s, chi di qualche toast consumato velocemente, dopo aver constatato che l’offerta “All you can eat” (mangi tutto quello che riesci a ingurgitare per ventisei dollari), non è delle più convenienti.
Entriamo al Paris, dopo esser passati sotto alla copia della Tour Eiffel. Sento un friccicore alle dita e infatti la prima tornata di slot machines sarà quella buona. Parto con un misero dollaro e dopo cinque minuti e innumerevoli “pushate” di bottone e rollate di maniglia ne incasso sette. Non sarò diventato ricco, ma la piccola botta di culo mi dà enorme soddisfazione e che piacere è ritirare il voucher e trasformarlo in petroldollari sonanti. Inizio a entrare nel ritmo della città, a farmi coinvolgere dalla sua assurdità. Ho messo da parte cento dollari per questa sera e ho intenzione di consumarli tutti. Ci ritroviamo in dieci al Caesar Palace, per perdere subito alla roulette tutto il credito sin lì acquisito. Una foto davanti alla Fontana di Trevi, poi ancora soldi persi alle slot machines del Venetian. Ma è già tardi. Solo per andare da un albergo all’altro ci vogliono minuti su minuti, anche perché le uscite non sono indicate; lo scopo è farti restare, attrarre verso dentro non verso fuori, verso gli sgabelli dove ti puoi sedere e spendere i tuoi risparmi. Anche per questo non ci sono orologi alle pareti, devi perdere la cognizione del tempo e giocare, incurante se fuori sia giorno o notte. Non azzardiamo a sederci ai tavoli di black jack o poker per non dover ipotecare anche la casa. C’è gente che gioca contemporaneamente con quattro slot machines, altri spingono il bottone senza neanche vedere la combinazione che esce; alieni sintonizzati solo sul rumore, in attesa che sia quello giusto, che arrivi il jackpot che rende miliardari o che “semplicemente” regala auto di lusso o moto da collezione. La stanchezza inizia a farsi sentire e passare tutta la notte a giocare in questi saloni tappezzati da slot machines non sembra poi il passatempo migliore.
Decidiamo quindi di raggiungere il punto più distante della strip e salire sulla Stratosphere, per godere la vista di tutte queste luci dall’alto e provare qualche attrazione adrenalinica. Ma la Torre è lontana, irraggiungibile. A piedi è una faticaccia e iniziamo ad avere sete. La felpa che Luisa ci ha costretto a portare con lo spauracchio che nei casinò ci potesse essere un freddo polare è inutilizzata e risulta solo un peso stretto attorno alla vita. Ormai siamo rimasti in sei, con la sensazione che la città ci abbia preso in giro, senza farsi scoprire in tutti i suoi lati. In quattro torneranno a piedi in una faticosissima maratona. Io e Daniele, unici reduci, compriamo una bottiglietta d’acqua e saliamo sul primo autobus che ci porta alla base della torre, là dove avevo deciso di andare anche da solo, quasi fosse il mio demone personale. Ma sono le 02:30 e in cima alla torre non si può più salire, le attrazioni sono ferme e se tanto mi dà tanto anche il Roller Coaster di New York avrà ormai fermato i suoi carrelli. La delusione è enorme. Non è vero che questa città vive ventiquattro ore su ventiquattro. È vero che puoi giocare sempre, che le slot non hanno orari di apertura e chiusura, ma tutto il resto, ristoranti, giostre e quant’altro, chiude. Non abbiamo saputo gestire la città. Dovevamo prima indirizzarci sulle attrazioni e lasciare poi alla notte il compito di svuotarci il portafoglio, invece abbiamo subito perso tempo alle slot e ora ci ritroviamo senza la nostra vista dall’alto.
Ero partito gonfio di aspettative, proponendomi capogruppo per una notte, infiltrandomi nelle foto dei giapponesi, saltando come un pazzo da un tavolo all’altro e mi ritrovo in piena notte ad aspettare un autobus che mi riporti al punto di partenza. Non resta che giocarci tutti gli spiccioli che abbiamo, attraversare il Luxor e l’Excalibur cambiando i nostri verdoni in una macchinetta che li suddivide in tagli più piccoli e facendoci contare gli spicci da un’altra macchinetta che in un nanosecondo fornisce l’esatto conteggio di quanto è rimasto nelle tasche. Alla fine perderò circa trenta dollari. Anche il video poker è una fregatura perché neppure un colore e una scala bastano a risollevare le mie finanze. Si vince poco e si perde tanto, sono macchine tarate per far perdere. La popolazione che si aggira per le sale semivuote e sporche è ormai la più derelitta, costituita per lo più da prostitute che cercano le loro prede in mezzo a qualcuno che sia riuscito almeno a rimanere in pari in questa notte d’azzardo. Il ritorno al motel è un’estenuante camminata. Finalmente, alle cinque del mattino, stanchi e sudati, crolliamo nel nostro letto.
Las Vegas, chi sei tu? Io ancora non ti ho capito, ma non avrò a mia disposizione un’altra notte per scoprirlo e tutto sommato non voglio averla, credo che una notte basti, due sarebbero già troppe.